La versione di Tabucchi

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Sfogliando e leggendo il libro postumo che Antonio Tabucchi aveva in gran parte messo insieme prima di andarsene il 25 marzo di un anno fa, mi perseguitava un titolo, che non è di Tabucchi ma di Georges Perec: La vie mode d’emploi (La vita istruzioni per l’uso).
Perché davvero questo libro di saggi che in modo ineguale si divide tra letteratura e cinema, ritratti di letterati e amici anche non letterati, è una sguardo lungo su ciò che ad Antonio nel corso di una vita è piaciuto, sugli incontri che ha fatto e sui libri che ha letto e sui film e sui pensieri che lo hanno incuriosito e magari a lungo assillato. Il tutto non cercando la quadratura critica, ma piuttosto l’emozione che a tutti quegli eventi, incontri e pensieri si era accompagnata.
Anna Dolfi che ha curato il libro ed ha scritto una postfazione ricca ed utile, dice che il titolo è arrivato all’ultimo momento. Una telefonata di Tabucchi all’editor della Feltrinelli, Alberto Rollo, per accennare a una poesia di Drummond de Andrade, tradotta proprio da lui e che si intitola Residuo.
Così il titolo, che viene da un verso che fa da leit-motiv dell’intera poesia e ne è il perno e il succo, è il suggestivo Di tutto resta un poco.
Un modo elegante per raffreddare gli entusiasmi, per prendere le distanze. Eppure, se si pensa che il primo saggio è dedicato alla letteratura e il secondo al tempo, si rinsalda anche l’idea di un castello costruito con le proprie carte, quelle appunto con cui si è “giocato” tante volte.
Estraiamo una frase dal primo saggio: «La letteratura è sostanzialmente questo: una visione del mondo differente da quella imposta dal pensiero dominante, o per meglio dire dal pensiero al potere, qualsiasi esso sia». Dunque, direi, la letteratura è un altrove. Scovare questo altrove, e diventare pienamente altro da sé, riesce a pochissimi. Citando Pessoa, Tabucchi aggiunge: «La letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta». Dunque per tornare al titolo di Perec, un modo per usare la vita è anche quello di produrre qualcosa di più rispetto alla vita stessa, qualcosa che, come scrisse Barthes, lavora negli interstizi della scienza, in ritardo o in anticipo su di essa. Temi larghi, come si vede, temi discussi tante volte, e ogni volta rilanciati, perché in letteratura nessun laboratorio è in grado di produrre l’esperimento definitivo e dunque la discussione sulla letteratura (ma anche quella sul tempo) è destinata ad accompagnare l’umanità  per sempre.
Del resto le porte della letteratura sono un po’ come il baule del prestigiatore: ne può uscire qualunque sorpresa. Parlando di Borges, Tabucchi ricorda che a un certo punto si diffuse in Francia la notizia che Borges non esisteva: era in realtà  un’invenzione di un gruppetto di scrittori argentini, tra cui ovviamente Bioy Casares, e quel tale che girava il mondo spacciandosi per Borges era solo un attore di terz’ordine, ormai imprigionato nel personaggio. Il racconto è talmente borgesiano da far sospettare che sia stato Borges a inventarlo e d’altra parte, ricorda ancora Tabucchi, Borges era stato a suo tempo scoperto da Roger Caillois e ne era talmente persuaso che dichiarava di essere un’invenzione di Caillois.
Ma si legga il bel saggio che Tabucchi dedica a Enrique Vila-Matas, autore di Bartleby e compagnia.
Si tratta, come si sa, di una spericolata opera sulla non-scrittura e sugli scrittori che hanno preferito non scrivere. Riferisce Vila-Matas che Juan Rulfo, il mitico autore di
Pedro Paramo rispondesse a chi gli chiedeva perché non scriveva più: «Perché è morto lo zio Celerino, che era quello che mi raccontava le storie». Però l’aneddoto è riferito (forse) da Augusto Monterroso, mitico scrittore di racconti di una sola riga. Forse è un falso di Vila-Matas, ma si capisce che Tabucchi ci ha preso gusto perché la storia degli scrittori che non scrivono è piena di storie da scrivere.
Parlando di cinema, Tabucchi ricorda come incontrò il film della sua vita e cioè La dolce vita di Fellini. «Lo vidi subito appena uscì, appena ottenne il visto della censura. Qui, sulla cassetta che ho e che spesso rivedo, hanno riportato “Visto della censura, 21 gennaio 1960”. Ecco, io La dolce vita l’ho visto allora, ma forse ero troppo immaturo per capirlo. L’avrei capito meglio molti anni dopo… ». E aggiunge dopo aver descritto i momenti salienti del film: «Insomma La dolce vita è il ritratto più terribile che un artista abbia prodotto della società  italiana. Profeticamente, Fellini aveva già  intuito dove saremmo andati a parare…». Qui, il testo risale al ’95, si fonde il ricordo
con il giudizio sulla società  italiana maturato poi, nella lunga lotta condotta dallo scrittore “per un mondo più umano” come ebbe a scrivere parlando di Antonio Cassese.
Ecco, credo che il senso di questa raccolta, Di tutto resta un poco, sia quello di permettere ai lettori di Tabucchi di seguire passo passo lo sciame dei suoi pensieri, quelli appunto che lo hanno accompagnato per una vita. E la citazione di Montale è ovviamente voluta.


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