Soldi ai partiti, il coraggio di decidere

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Quanto allo scandalo Montepaschi, non ha giovato la minaccia di sbranare chi chiedeva conto delle sue evidenti commistioni politiche. Mentre in Lombardia la mai chiarita vicenda Penati è resa ancor meno sopportabile dalle prescrizioni che hanno salvato dal processo gli uomini delle coop rosse, grazie a una legge del governo Monti votata dal Pd.
Sono i nervi scoperti di una sinistra che non ha voluto affrontare per tempo questioni fra loro diverse, ma di cruciale rilevanza. Forse Bersani sperava che la vittoria elettorale, di cui era quasi certo, consentisse di eluderle. E così, proprio ora che la stretta finale dei processi delegittima platealmente la destra ridottasi a guarnigione di un Capo imputato per reati infamanti, anche il Pd si ritrova esposto al dileggio di Grillo che insiste a chiamarlo pidimenoelle.
Proprio perché sappiamo che non c’è paragone possibile fra destra e sinistra sulla questione morale, avvertiamo i danni provocati da tale colpevole inadempienza. Le ragioni che spinsero Bersani a sottrarsi a un discorso di verità  sul finanziamento pubblico dei partiti e sul rapporto tra affari e politica, oggi si ripropongono drammaticamente nel confronto con Renzi. Rendono incerto il futuro personale di molti dirigenti e dipendenti. Mettono a repentaglio la stessa sopravvivenza del Pd.
Invano le ruberie del tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, avevano notificato l’esistenza di contabilità  opache e bilanci paralleli. La decisione di ricandidare dall’alto il vecchio tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti, ci ricorda come sussistano necessità  di tutela patrimoniale ereditate dal passato; così come stratificazioni di personale, giornali, organismi desueti. Disfarsene, così come ben prima di Grillo avevano già  chiesto tanti militanti del Pd, è operazione dolorosa. Tanto più che per tappare i buchi di bilancio del passato remoto, e per mantenere le più snelle strutture odierne, si era preferito contravvenire tacitamente alla volontà  popolare espressa in un referendum. Una furbizia resa indifendibile dal voto del 24 febbraio. Mi auguro che non dobbiamo assistere a un’indecente ridda di accuse a colpi di dossier su sprechi e abusi fra dirigenti dello stesso partito, ma è chiaro che il suo apparato è destinato a un ulteriore, drastico ridimensionamento.
Quanto ai rapporti tra politica e affari, da Sesto San Giovanni a Siena, altrettanto deleteria si conferma la reticenza manifestata in proposito da Bersani di fronte a chi, in prima fila questo giornale, si rivolgeva a lui con amicizia per ottenere chiarezza. Qui si trattava di fare i conti con una lunga vicenda, certamente complessa da decodificare; il legame fra partito e movimento cooperativo; l’assegnazione degli incarichi nelle fondazioni bancarie e nelle aziende pubbliche; le relazioni intercorse fra uomini di governo e potentati finanziari e industriali. L’intero sistema economico italiano ne è stato condizionato, in un intreccio poco trasparente col (defunto) sistema dei partiti. Si trattava di avviare un ripensamento difficile ma necessario a prescindere dagli esiti delle inchieste giudiziarie. La mancanza di chiarezza in proposito, dovuta a un istinto autodifensivo, scaricherà  forse su Penati (e su Mussari?) responsabilità  che andrebbero condivise, ma non ha certo giovato al Pd che ora dovrà  farci i conti.
Non sarà  facile affrontare tali spinose eredità  del passato sotto i colpi di un’offensiva demagogica orchestrata da Grillo, titolare di un movimento di sua proprietà  che si mantiene con gli introiti pubblicitari e può fare a meno di contributi pubblici. La stessa richiesta di Renzi — abolire subito i rimborsi elettorali — può avere effetti devastanti sulla struttura di un partito nazionale che non voglia ridursi a movimento d’opinione. Ma ormai la mera difesa dell’apparato risulta improponibile e la ricostruzione di una comunità  democratica necessita di un ripensamento coraggioso, fondato su sobrietà , buon esempio a partire dal vertice, trasparenza.


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