Choc metropolitani in forma di merce

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Gli spazi delle città  hanno sempre avuto un rapporto particolarmente intenso con il mondo dei consumi. Un rapporto che può addirittura essere considerato indispensabile, dal momento che lo sviluppo della vita urbana è stato possibile soltanto grazie al suo intreccio con l’attività  commerciale. In un’epoca nella quale i luoghi del consumo hanno invaso ogni spazio quotidiano degli individui, è possibile chiedersi se la loro presenza non sia diventata eccessiva. Se non sia talmente intensa da rendere sempre più difficoltosa quella vita urbana e sociale che, in passato, contribuiva ad alimentare. Il tema è rilevante e ha dato vita ad analisi e approfondimenti, raccolti in alcuni volumi usciti negli ultimi tempi, in Italia e all’estero.
Valeria Giordano è una studiosa impegnata da diversi anni a cercare di mettere in luce i molteplici linguaggi che si intrecciano all’interno delle metropoli. Nel suo recente volume Immagini e figure della metropoli (Mimesis, pp. 152, euro 14) ha rielaborato un testo – La metropoli e oltre – che aveva dato alle stampe nel 2005, ma era rapidamente scomparso dal mercato, a causa della chiusura della casa editrice. Appoggiandosi a numerosi riferimenti letterari e filosofici, Giordano tenta di esplorare la straordinaria capacità  della vita metropolitana di creare un immaginario che si caratterizzi per la sua duplicità , natura ibrida e per certi versi «mostruosa», capace di tenere insieme numerosi contrari: l’innovazione e la conservazione, il transitorio e l’immobile, il nuovo e l’antico. Lo fa principalmente analizzando figure emblematiche della condizione metropolitana, che comprendono il celebre flà¢neur individuato da Baudelaire e Benjamin, ma anche decisamente più contemporanee come lo straniero, lo spettatore, il consumatore o il cyborg.
Il trauma dei sensi
Nel libro, si parte dalla consapevolezza che metropoli e cultura moderna abbiano un rapporto molto profondo. Anzi, la seconda non può essere compresa appieno se non all’interno della stretta relazione che intrattiene con la metropoli stessa e che si sviluppa a partire dalla comune capacità  di attivare tutti i sensi del corpo umano. Solo lo choc, infatti, con la sua carica innovativa e traumatica, è in grado di sconvolgere le aspettative individuali, interrompendo la linearità  del tempo. Brucia però, altrettanto velocemente, nella consapevolezza che verrà  presto sostituito da un altro choc.
Secondo Giordano, lo choc rappresenta un’esperienza fondamentale della condizione metropolitana e si manifesta in maniera esemplare attraverso le forme assunte all’interno degli spazi del consumo. È in tali spazi che si offre la soddisfazione istantanea, cioè destinata a rinnovarsi continuamente e a dar vita ai ritmi sempre più accelerati delle merci e dei loro messaggi. È qui, inoltre, che si intensifica quella contaminazione tra corpi umani e oggetti che, come era stato evidenziato da Benjamin, aveva già  cominciato a svilupparsi nei primi spazi di consumo della modernità : i passages parigini dell’Ottocento.
Il processo d’intensificazione della contaminazione tra corpi e oggetti si è evoluto in conseguenza di una radicale trasformazione del modello capitalistico. Quello industriale, infatti, ha avuto per lungo tempo la necessità  che gli spazi urbani rifornissero di manodopera le sue fabbriche. Grandi masse di individui dovevano vivere in prossimità  dei suoi luoghi di produzione, posizionati solitamente all’interno delle grandi città . Ma il capitalismo ha anche richiesto che gli spazi urbani operassero come una domanda in grado di assorbire le sue eccedenze produttive. Non è un caso, pertanto, che luoghi del consumo di massa come i grandi magazzini abbiano dovuto strutturarsi e svilupparsi in diretta relazione con le fabbriche.
Il passaggio negli ultimi decenni a un nuovo modello di capitalismo – delocalizzato, globale e basato sui flussi e sulle reti – ha interrotto questo rapporto di profonda simbiosi tra fabbriche e città . La produzione si è spostata altrove e si è resa progressivamente autonoma dai luoghi tipicamente metropolitani, lasciando piena libertà  alla moltiplicazione degli spazi del consumo. D’altronde, ciò che conta nel capitalismo contemporaneo è che merci, persone e informazioni possano circolare senza interruzioni: opera sempre meno in funzione della produzione e adotta in misura crescente il meccanismo del mondo dei consumi. Una logica che si caratterizza proprio per la sua elevata instabilità  e un incessante movimento.
Offerta e domanda
È avvenuto, quindi, quello che ha affermato Steven Miles nel volume Spaces for consumption. Pleasure and placelessness in the post-industrial city (Sage, pp. 209, euro 28,66). Secondo lo studioso inglese, addirittura, «l’esperienza individuale della città  è filtrata dai processi implicati dalle attività  di consumo». Nelle contemporanee città  guidate dal consumo, le persone – sebbene abbiano comunque la libertà  d’interpretare e utilizzare le opportunità  che vengono loro offerte – sono fondamentalmente influenzate dalle esperienze di shopping che possono vivere. Ciò appare evidente nei numerosi casi che Miles ha analizzato in maniera dettagliata: città  come Glasgow, Shangai o Los Angeles, ma anche luoghi particolari come gli aeroporti, le Olimpiadi o i parchi a tema della Disney.
La cultura del consumo, dunque, esercita una notevole influenza sullo sviluppo delle città  occidentali e sulla costruzione di una identità . Oggi, per sentirsi dei cittadini a pieno titolo è necessario prima di tutto essere in grado di agire in quanto consumatori. Nel 2012, di fronte allo stadio delle Olimpiadi di Londra, è stato costruito il gigantesco Westfield London, il più grande centro commerciale d’Europa (con 265 negozi, 50 ristoranti, un centro benessere, un cinema dotato di 16 sale e una superficie commerciale di 150mila metri quadrati). Entrambi sono stati realizzati distruggendo brutalmente gli edifici e l’identità  dell’East End, da sempre considerata la zona popolare e operaia della metropoli inglese.
Il capitalismo contemporaneo si basa su quella mobilità  e transitorietà  che sono tipiche della cultura del consumo, caratteristiche divenute fondative e centrali anche nelle città  odierne. La struttura urbana si è necessariamente dovuta adeguare al funzionamento del modello di consumo.
Sabrina Pomodoro, nel volume Spazi del consumo. Shopping center, aeroporti, stazioni, temporarystore e altri luoghi transitori della vita contemporanea (Franco Angeli, pp. 204, euro 25), ha sostenuto ciò che appare oggi evidente: la città  ha visto «sfaldarsi» progressivamente i suoi confini, gli stessi che in passato distinguevano nettamente il centro dalla periferia e la parte urbanizzata dalla campagna. Il consumo è stato il suo più potente motore di cambiamento, producendo un progressivo indebolimento degli spazi pubblici tradizionali, a tutto vantaggio di quelli nuovi e privati del consumo. Spazi che naturalmente hanno assunto anch’essi una natura dinamica e precaria. Come quelli che oggi vanno sempre più moltiplicandosi e che Pomodoro ha definito con diverse etichette: «spazi del transito» (aeroporti e stazioni), «in transito» (temporary store, guerrilla restaurant, librerie «nomadi») oppure «di passaggio» (fast food, chioschi, distributori automatici, minimarket di prossimità ).
L’autrice ha sottolineato però la paradossalità  del ruolo svolto da questi nuovi luoghi del consumo. A suo avviso, oltre a essere adibiti al transito, operano anche come luoghi di sosta e sviluppo delle relazioni sociali. Anzi, il loro successo dipende proprio dalla capacità  di svolgere questa funzione. Sebbene quella a cui danno vita sia comunque una socialità  effimera e ben diversa dall’agorà  tradizionale che finisce per assumere forme «più flebili, flessibili, ma non per questo insignificanti».
Tra i luoghi transitori del consumo potrebbero essere annoverate anche le esposizioni universali, se non fosse che si tratta di un’invenzione che ha avuto successo soprattutto nell’Ottocento. Nel corso del Novecento, sono state organizzate altre esposizioni, ma nessuna è stata in grado di rappresentare un potente polo di attrazione, al pari di quelle realizzate nel secolo precedente.
Il Millennium Dome
Nell’epoca d’oro delle esposizioni vennero progressivamente messe a punto quelle tecnologie comunicative (stampa popolare, fotografia, cinema, radio, ecc.) che hanno consentito agli individui di conoscere le novità  offerte dal mondo dell’industria, senza doversi sobbarcare i costosi e faticosi viaggi. Pertanto, il ruolo di medium di comunicazione del mondo del consumo svolto dalle esposizioni universali è diventato improvvisamente superfluo: quelle manifestazioni hanno continuato a essere organizzate, ma nessuna è più stata in grado di ottenere lo stesso impatto delle sue progenitrici ottocentesche.
La grande potenza simbolica posseduta da un evento come la conclusione del secondo millennio ha reso però possibile creare un’altra esposizione significativa: quella allestita a Londra dentro il Millennium Dome. Un’enorme cupola che presentava 16 spettacolari attrazioni tematiche ed era talmente grande che poteva contenere al suo interno ben due volte lo stadio di Wembley. Dunque, Londra, un secolo e mezzo dopo la prima grande manifestazione del 1851, ha cercato di rinverdire i fasti dell’epoca d’oro delle esposizioni universali e lo ha fatto ancora una volta con un edificio altamente spettacolare, come era stato il Crystal Palace. Il Millennium Dome però durante il suo anno di apertura ha avuto 6,5 milioni di visitatori anziché i 12 previsti e ha costretto il governo britannico a rifinanziarlo più volte.
Nel suo volume Atlante delle grandi esposizioni universali. Storia e geografia del medium espositivo (Franco Angeli, pp. 188, euro 23), Luca Massidda ha messo in luce come negli ultimissimi anni le esposizioni siano ritornate d’attualità , in conseguenza del presentarsi di una situazione sociale paragonabile a quella attraversata dalle società  occidentali della fine dell’Ottocento. Una situazione estremamente dinamica, caotica e disorientante per gli individui, alla quale l’esposizione promette di opporsi attraverso la sua struttura ordinata e il potente messaggio che è in grado di proporre. Favorita in ciò anche dalla ritrovata importanza degli spazi metropolitani.
Vedremo dunque se, come ha affermato Massidda, le esposizioni universali potranno riacquistare la forte centralità  sociale di cui godevano in precedenza. Soprattutto a partire da una sfida impegnativa come la prossima Expo Milano 2015.


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