Il limbo infinito delle non-sentenze

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Ne è prova lo stallo che ha paralizzato il Parlamento, il governo, a quanto sembra pure il Quirinale. E sul fronte giudiziario, ne è prova una doppia sentenza, o meglio non-sentenza, della Cassazione. Che il 26 marzo ha annullato il verdetto d’assoluzione, reso dopo due gradi di giudizio, per Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Insomma tutto da rifare, a distanza di 5 anni e 5 mesi dall’omicidio di Meredith Kercher. E che adesso ha concesso il bis sul delitto di Garlasco. Annullando l’assoluzione di Alberto Stasi, benché decretata da due diversi tribunali. Ordinando un nuovo processo d’appello. E lasciando perciò nel limbo vittime e colpevoli, 68 mesi dopo l’omicidio di Chiara Poggi.
Domanda: ma c’è una logica in questo ping pong giudiziario? C’è ancora giustizia in quest’attesa perenne di giustizia? La risposta si legge in una massima della Corte suprema americana, dettata nel 1999: «Justice delayed, justice denied» (giustizia tardiva, giustizia negata). E noi italiani, sui ritardi giudiziari, non siamo in ritardo su nessuno. Tanto che la Banca mondiale ci colloca al 160º posto (su 185 Paesi) per la tutela giurisdizionale dei contratti. Che la durata media dei processi d’appello, nel 2011, è lievitata da 947 a 1033 giorni. Che quelli in primo grado, nel 2012, impegnavano 463 giorni. Più nel dettaglio, significa che in Italia un processo per sfratto si prolunga in media per 630 giorni (in Canada 43), mentre un contenzioso per incassare assegni a vuoto si conclude dopo 645 giorni (in Olanda dopo 39). Senza dire, per l’appunto, dei giudizi penali, come quelli in cui sono imputati Amanda Knox o Alberto Stasi. A forza di tirarla per le lunghe, prima o poi scatta la mannaia della prescrizione (130 mila casi l’anno scorso), e chi s’è visto s’è visto.
Sulla lumaca giudiziaria pesa indubbiamente l’arretrato, che ha ormai raggiunto la cifra formidabile di 5,4 milioni di processi pendenti. Pesa la litigiosità  degli italiani, che ogni anno innescano 180 mila nuove cause per baruffe condominiali. Pesa la lobby degli avvocati (236 mila, 5 volte in più rispetto alla Francia): più pende e più rende, come si suol dire. Pesa il costume di rinviare ogni processo alle calende greche, e infatti i rinvii colpiscono quotidianamente 7 processi su 10. Ma pesa inoltre, o forse soprattutto, un difetto strutturale, quello che consente d’appellare qualunque decisione, e poi d’aggiungere all’appello il contrappello. Una garanzia, almeno sulla carta. Però l’eccesso di garanzie si converte nel suo opposto, diventa privilegio per i ricchi, torto per i deboli. E in ultimo lascia la vittima a mani vuote, senza giustizia, senza risarcimento per l’offesa subita. Ecco perché l’appellabilità  delle sentenze non è affatto una regola di ferro. In materia civile, la Spagna ne permette l’uso in casi circoscritti, e sempre che il valore della causa ecceda i 150 mila euro. Funziona così, più o meno, anche nel Regno Unito, in Germania, in Francia, negli Usa. Dove il giro di vite è ancora più stretto nella materia penale, perché soltanto i condannati a morte hanno diritto a una revisione automatica del giudizio. Gli altri possono richiederla soltanto a certe condizioni, sicché ne beneficia un imputato ogni 170. Mentre la Corte suprema riceve 80 casi l’anno, quando la nostra Cassazione ne assorbe 80 mila.
Morale della favola: siamo il Paese del bicameralismo perfetto, del ricorso imperfetto. E in entrambi i casi c’è una norma costituzionale a proteggere l’ossimoro. Quanto alla giustizia, la contraddizione alberga nell’art. 111 della Carta, scritto nel 1947 ma riformulato dal centrosinistra nel 1999. Perciò adesso vi si legge, da un lato, che ogni processo deve avere una durata ragionevole; dall’altro, che ogni sentenza penale può venire impugnata in Cassazione. Come diceva Camus, l’assurdo è un peccato senza Dio.


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