IL METODO SBAGLIATO

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Silvio Berlusconi la benedice come una «buona candidatura », perché Marini «è persona del popolo». Hanno ragione tutti e due. Ma la somma non fa l’intero. Questo compromesso bipartisan tradisce le attese che il segretario del Pd aveva alimentato parlando di una «carta a sorpresa» sul modello Boldrini-Grasso alla Camera e al Senato.
Sul Quirinale è invece tornata la vecchia logica. Meno innovativa e più conservativa. Il problema non è il «merito» della scelta. Marini è persona degnissima e non merita di finire nel tritacarne nel quale rischiano di precipitarlo le comprensibili resistenze di un bel pezzo della sua stessa costituency. Il problema è il metodo con il quale si è arrivati alla scelta, che chiama in causa i rapporti di forza tra centrosinistra e centrodestra. E, insieme al metodo, c’è un problema politico, che interroga direttamente il Pd, il suo rapporto con il Paese e il suo orizzonte culturale e identitario.
Nel merito, Marini merita il massimo rispetto. La sua storia personale parla per lui. Esponente della sinistra sociale della Dc di Donat Cattin, democratico sincero e antifascista convinto. Segretario generale della Cisl ai tempi di Lama e Benvenuto, presidente del Senato, poi senatore. Non è sospettabile di cedevolezze, sulla linea del Piave della difesa della Costituzione e dei poteri dello Stato, sistematicamente attaccati e delegittimati nel quasi Ventennio berlusconiano. Uomo di esperienza politica collaudata, e oltre tutto con il cuore e il cervello immersi da sempre nel corpo vivo della società  italiana, che soffre i morsi della recessione e della disoccupazione. Chi meglio di lui, dall’alto dell’istituzione più rappresentativa della Repubblica, può interpretare i bisogni e i disagi del Paese reale, travolto dalla crisi globale?
Nel metodo, Bersani aveva di fronte a sé una strada maestra. Da vincitore virtuale delle elezioni, aveva il diritto- dovere di fare un nome degno, di sicura sensibilità  istituzionale e costituzionale, individuato preferibilmente al di fuori dalla nomenklatura di partito. Aveva il diritto-dovere di presentare quel nome agli italiani, di offrirlo e di spiegarlo come fattore di coesione e di garanzia, per tutti i cittadini e per tutte le forze politiche. Aveva il diritto-dovere di chiedere, su quel nome, il voto unanime dei gruppi parlamentari. Con un percorso aperto, lineare, trasparente. Che parlasse al Paese, molto più che al Palazzo.
Il leader del Pd ha imboccato invece un’altra via. Infinitamente più tortuosa, contraddittoria e a tratti incomprensibile. E a un giorno dall’inizio del voto dei Grandi Elettori, con una sorprendente rinuncia all’esercizio della leadership, ha inopinatamente consegnato la decisione finale nelle mani di Berlusconi, sottoponendogli non un nome, ma una rosa. Così il Cavaliere ha potuto scegliere la soluzione per lui più vantaggiosa, lucrando una golden share sul settennato impropria e immeritata rispetto ai numeri e ai rapporti di forza tra i due poli.
Non è tutto. Dopo la mossa vincente e convincente sui nuovi presidenti di Camera e Senato, Bersani aveva anche indicato i due requisiti fondamentali per la selezione del nuovo Capo dello Stato. “Competenza” e “cambiamento”: queste erano le password che avrebbero aperto le porte del Colle al nuovo inquilino. Qui c’è uno scarto visibile tra obiettivo e risultato. Marini ha certamente grande competenza (anche se, per usare il linguaggio dei costituzionalisti, non ha alle spalle né standing internazionale né expertise da grande «meccanico nell’officina delle istituzioni »). Ma in tutta onestà  non si può affermare che Marini rappresenti il “cambiamento”. Può darsi che Matteo Renzi abbia torto, quando sostiene che è «uomo del secolo scorso». Tuttavia ha qualche ragione quando aggiunge che la sua candidatura è «uno schiaffo al Paese», che invoca inutilmente la rifondazione della politica e il ricambio delle classi dirigenti. Non si può certo dire che Marini sia una risposta alla domanda di futuro che sale dall’Italia e che ispira il “Pd possibile” sognato dal sindaco di Firenze.
E qui la scelta di metodo nasconde il problema politico. Era già  accaduto dopo il voto del 24-25 febbraio, per la formazione del nuovo governo: usando la vecchia metafora andreottiana, anche per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica Bersani aveva due “forni” ai quali rivolgersi per impastare il suo pane: il forno di Grillo e il forno di Berlusconi. Sul governo, il leader del Pd ha inutilmente provato a rivolgersi al forno di Grillo, umiliandosi persino di fronte ai suoi “pizzaioli”, e gli è andata male. Sul Quirinale, ha ostinatamento bussato al forno di Berlusconi, cedendogli la prima scelta, e ora rischia di andargli male ugualmente. Perché mentre nel primo caso il pane di Grillo era immangiabile, visto che i Cinque Stelle non fanno coalizione con nessuno, nel secondo caso era invece commestibilissimo.
La candidatura di Stefano Rodotà , inventata ad arte dall’ex comico, apriva e forse aprirebbe ancora un terreno nuovo (e non banalmente “nuovista”, in stile Milena Gabanelli) che il Pd avrebbe potuto utilmente esplorare. O “appropriandosi” per tempo di quello stesso candidato, che è un fior di costituzionalista ed è stato a suo tempo presidente del Pds. O proponendo un candidato simile, come ad esempio Sabino Cassese, a sua volta simbolo di quel rinnovamento sul quale si fondano le istanze della società  civile e di una larghissima fetta di elettorato della sinistra, riformista o radicale che sia.
Con la candidatura di Marini, Bersani rinuncia a questa “esplorazione”. Non sappiamo se dietro ci sia un calcolo inconfessato sulla nascita di un possibile “governo di minoranza”, magari con la non sfiducia del Pdl. Ci rifiutiamo di crederlo. Ma vediamo il risultato che questa decisione del segretario ha prodotto. Il Pd che si conta e si spacca, lungo una faglia che non attraversa solo i renziani ma anche le altre correnti interne. Sel e Vendola che si sfilano. Il centrosinistra che offre ancora di più il suo fianco già  martoriato alle sciabolate impietose di Grillo e Casaleggio, e si allontana ancora un po’ dal suo elettorato, confuso e sgomento. E infine il pericolo che tutto questo precipiti nella rappresentazione plastica dell’ennesimo paradosso: Marini, voluto da Bersani e scelto da Berlusconi, che viene eletto solo da una “scheggia” di Pd e da un blocco mono-litico di centrodestra, occasionalmente “ricostituito” da Pdl, Lega e Scelta Civica.
Un bel capolavoro, che si poteva e si doveva evitare. E che il Partito democratico, più lacerato che mai ed esposto al napalm del suo Vietnam interno, rischia di pagare carissimo nell’immediato futuro.


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