INDIGNARSI NON BASTA

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Non avrei mai pensato che un piccolo libro di trenta pagine come Indignatevi! potesse avere una tale ripercussione e mobilitare così tante persone. Ma la cosa certa è che il movimento dei giovani spagnoli nella primavera del 2011, adottando l’indignazione come bandiera, ha rappresentato un chiaro appello per tutti, un appello che ha superato le frontiere della Spagna. Il movimento degli Indignati, spontaneo ed estraneo al mondo dei partiti politici tradizionali — che oggi suscitano così tanta sfiducia — ha rappresentato qualcosa di nuovo, l’espressione di un rifiuto delle manovre di un’oligarchia, non solamente finanziaria, che vorrebbe sequestrare il potere politico. E la manifestazione di una sentita rivendicazione per una vera democrazia. È stata anche, da parte dei giovani, una maniera di manifestare la loro responsabilità  attraverso canali differenti da quelli stabiliti.
La forza che questo movimento ha acquisito in Spagna non deve far dimenticare che questa aspirazione ad una autentica democrazia e questo rifiuto dell’oligarchia sono comuni ai giovani di molti altri Paesi. Simili movimenti di protesta si sono prodotti in Europa, specialmente in Grecia e Portogallo, negli Stati Uniti e nell’America Latina, in Cina, in India… Le forme di contestazione popolare della cosiddetta Primavera araba, che hanno avuto luogo nel 2010 in vari paesi del Nord Africa, dalla Tunisia all’Egitto, fanno parte di questa corrente di fondo.
Il problema, tanto per gli uni come per gli altri, è come tradurre questo movimento in un’alternativa efficace per cambiare le cose, per influire sulle scelte del governo e promuovere le riforme volute dalla maggior parte dei cittadini. Nel caso della Spagna, la traiettoria degli Indignati non è sempre stata facile da decifrare. Nel 2011, per paradosso, gli Indignati fecero cadere un governo di sinistra e contribuirono a consegnare il potere a un governo di destra molto distante dalle loro rivendicazioni. Io sono stato fra i primi sostenitori di José Luis Rodrà­guez Zapatero: pensavo che un governo socialista avrebbe fatto la politica di cui gli spagnoli avevano bisogno. Il suo fallimento mi ha davvero deluso. […] Ma l’indignazione non è sufficiente. Se qualcuno crede che per cambiare le cose basti manifestare per le strade, si sbaglia. È necessario che l’indignazione si trasformi in un vero impegno. Il cambiamento richiede uno sforzo. Va benissimo esprimere il nostro rifiuto dell’oligarchia, ma contemporaneamente bisogna proporre una visione ambiziosa dell’economia e della politica che sia capace di trasformare la condizione del nostro Paese. Non ci si può limitare alla protesta. Occorre agire. […] La situazione oggi in Europa, pur se non identica, ricorda un po’ quella provocata dalla grave crisi degli anni Trenta, che sfociò nella Seconda guerra mondiale. Anche oggi ci ritroviamo davanti a rischi simili. La crisi attuale, e la sofferenza che genera, esacerbano l’odio e la paura. Gi estremismi sono in agguato.
Ma la via della rivoluzione, delle ideologie totalitarie, non porta da nessuna parte. Rivoluzione e totalitarismo sono parole che portano l’una all’altra. Io sono nato con la rivoluzione sovietica e forse per colpa sua ho contratto l’allergia all’idea di rivoluzione… La risposta alla sofferenza causata dalla crisi non mi sembra possa essere un Fidel Castro o un Che Guevara, ma un’alleanza delle forze democratiche riformiste in difesa dei valori democratici.
Durante il Ventesimo secolo, molti europei — spagnoli, francesi, italiani… — si arresero a movimenti organizzati e a ideologie che si impossessarono delle loro coscienze, stabilendo quello che poteva o non poteva essere, e che li portarono a perdere ogni fiducia in se stessi. L’uomo basta a se stesso, non ha bisogno
di una guida suprema. Per tutti questi motivi io non sono mai stato comunista. E neppure anticomunista.
È che non credo che il cambiamento possa venire da azioni rivoluzionarie o violente che distruggano l’ordine costituito. Io credo in un lavoro intelligente, a lungo termine, attraverso l’azione e la concertazione politica, e la partecipazione democratica. La democrazia è il fine, ma deve anche essere il mezzo. Gli Indignati spagnoli sono stati criticati per l’incapacità  di tradurre il loro movimento in un’organizzazione efficace. Da un certo punto di vista, è questa la loro principale debolezza. Ma è anche la loro grandezza. Un eccesso di organizzazione può anche essere un pericolo. E, in un certo senso, sono particolarmente contento di vedere che gli Indignati spagnoli sono stati sufficientemente prudenti da evitare la tentazione di mettersi nelle mani di un grande leader incontestabile. Non c’è nessun bisogno di un’organizzazione piramidale, dove alcuni — i capi — danno gli ordini e gli altri li eseguono.
Allora, come canalizzare questo impulso? Come farlo fruttare? Uno dei terreni in cui i giovani che vogliono cambiare le cose possono dimostrarsi utili è l’ambito dell’economia sociale e solidale. Quello della difesa dell’ecologia e dell’ambiente è un altro. Sono due facce della stessa medaglia. Ci salveremo soltanto se creeremo un nuovo modello di sviluppo, socialmente giusto e rispettoso del pianeta.
Inoltre, bisogna ritrovare il gusto della politica, perché senza politica non può esserci progresso. Ci sono molti modi di intervenire in politica, di suscitare il dibattito, di proporre idee. Lo scrittore Và¡clav Havel, storico dissidente contro la dominazione sovietica e difensore dei diritti umani, che assunse la presidenza dell’antica Repubblica Cecoslovacca dopo la caduta del muro di Berlino, una volta disse: «Ognuno di noi può cambiare il mondo. Anche se non ha alcun potere, anche se non ha la minima importanza, ognuno di noi può cambiare il mondo ». […] I partiti politici tradizionali si sono chiusi troppo in se stessi. Sono anchilosati e hanno bisogno di una scossa. Nonostante tutto, però, continuano a essere uno strumento essenziale della partecipazione politica. Credo che non si debba neppure dubitare dell’opportunità  di entrare in un partito. Io sono del tutto convinto che si debbano utilizzare le forze politiche esistenti. Meglio stare dentro che fuori. Ai miei amici ripeto sempre la stessa cosa: se volete combattere i problemi, se volete che le cose cambino, nelle democrazie istituzionali nelle quali viviamo il lavoro deve essere fatto con l’aiuto dei partiti. Perfino coi loro difetti, le loro imperfezioni, le loro insufficienze.
Ognuno di noi deve trovare il partito più vicino alle proprie preoccupazioni, il più disposto ad appoggiare le proprie rivendicazioni, ed entrare a farne parte. Non ci si deve illudere. Non ne troverete mai uno, neppure uno, che coincida al cento per cento con la vostra linea. Ma le cose stanno così, questo fa parte del gioco. Trovate che non abbiano abbastanza vigore? Che non siano abbastanza determinati? Non dimenticate che siete voi che potete infondere loro quel vigore e quella determinazione.
Traduzione Valerio Nardoni


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