Pacem in terris. Pace in Mali

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Ricordiamo che l’enciclica venne scritta nei mesi successivi alla crisi di Cuba dell’ottobre 1962 quando davvero si era a un passo da un conflitto diretto tra USA e URSS. Sono passati decenni ma sembra che l’umanità  non comprenda ancora i pericoli che corre. Tuttavia la “Pacem in terris” non è un testo attuale solo perché richiama al disarmo e vuole mettere al bando le armi atomiche (si veda dal paragrafo 60 in poi), ma perché innova profondamente la visione cattolica della guerra e della pace.

Cominciamo dal titolo. In questa enciclica si fa esplicito riferimento alla pace “in terra”, anzi al plurale, quindi la terra nella sua globalità , come pianeta composto di persone, culture e popoli. Dunque, si potrebbe anche dire: “pace in terra e tra i popoli”. Non si parla dunque della pace solo come di una condizione spirituale, disincarnata, angelicata, ma di una pace che ha volto, gambe e braccia. Che sa di terra, di fatica, di sudore. Una pace realmente praticabile. Incarnata. È dunque un’enciclica dall’indubbio risvolto politico, guidata dall’ermeneutica conciliare per eccellenza, quella della lettura dei segni dei tempi. Un’ermeneutica che consente a Roncalli, pur con la consapevolezza della gravità  delle questioni sollevate, di non ammantare le sue riflessioni di pessimismo (come in parte avverrà  invece con la “Populorum Progressio” di Paolo VI, altra grandissima enciclica, per molti aspetti una continuazione della “Pacem in terris”), ma di aprirsi ai segnali di speranza per fare di questi un potente motivo profetico.

Giovanni XXIII ha una visione positiva della storia, quasi provvidenziale, concretizzata nei famosi “segni dei tempi”: l’ingresso della donna nella vita pubblica, l’ascesa economico-sociale delle classi popolari, l’emancipazione dei popoli del cosiddetto “terzo mondo”, il risveglio di un più acuto e universale senso della dignità  umana; la carta dei diritti fondamentali degli esseri umani; la costituzionalizzazione dei poteri politici e dei loro reciproci rapporti; il negoziato come via privilegiata per la risoluzione dei conflitti tra i popoli.

Spicca poi il ripudio della secolare dottrina della guerra giusta. Questa la celebre frase del paragrafo 67: “riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia”. Questa traduzione italiana non rende però la radicalità  e la chiarezza dell’affermazione, che risulta evidente dal testo originale latino. Il ricorso alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie tra i popoli viene letteralmente definito un atto “alienum a ratione”, ossia una vera e propria “follia”. La guerra viene pertanto designata come quanto di più aberrante dall’umano possa essere pensato. Difficile trovare in altri documenti ecclesiali una condanna della guerra tanto risoluta e radicale.

Un’altra novità  essenziale riguarda l’attenzione riservata al tema della “dignità  umana” fondata su una concezione religiosa della libertà . Esiste una sorta di ispirazione religiosa che guida ogni uomo e donna di buona volontà  (a prescindere da un’adesione evidente a una chiesa o a una confessione) e li spinge ad una acquisizione di una coscienza sempre più viva della propria inalienabile dignità .

Ogni diritto positivo deve riconoscere, tutelare e mai soggiogare a sé questa dignità , come si legge al paragrafo 17: “La dignità  di persona, propria di ogni essere umano, esige che esso operi consapevolmente e liberamente. Per cui nei rapporti della convivenza, i diritti vanno esercitati, i doveri vanno compiuti, le mille forme di collaborazione vanno attuate specialmente in virtù di decisioni personali; prese cioè per convinzione, di propria iniziativa, in attitudine di responsabilità , e non in forza di coercizioni o pressioni provenienti soprattutto dall’esterno”. E poi al paragrafo 50: “Non ci sono esseri umani superiori per natura ed esseri umani inferiori per natura; ma tutti gli esseri umani sono uguali per dignità  naturale. Di conseguenza non ci sono neppure comunità  politiche superiori per natura e comunità  politiche inferiori per natura: tutte le comunità  politiche sono uguali per dignità  naturale, essendo esse dei corpi le cui membra sono gli stessi esseri umani. Né va quindi dimenticato che i popoli, a ragione, sono sensibilissimi in materia di dignità  e di onore”.

Interdipendenza, sussidiarietà , centralità  degli organismi internazionali sono altri concetti chiave della proposta “politica” di Giovanni XXIII. Al cuore però resta la persona, nella sua libertà  e nella sua capacità  di fare il bene. Al momento della firma dell’enciclica, il 9 aprile 1963, il Papa volle precisare un’innovazione presente nel documento “indirizzato non solo all’episcopato della Chiesa universale, al clero e ai fedeli di tutto il mondo, ma anche a tutti gli uomini di buona volontà . La pace universale è un bene che interessa tutti indistintamente; a tutti, quindi, abbiamo aperto l’animo nostro”.

Due mesi dopo la “Pacem in terris” papa Giovanni moriva. Come sottolineato da Raniero La Valle quella sulla pace è stata “l’ultima parola” del Papa riformatore, ma anche la prima, quella con cui si presentò umile quando fu consacrato vescovo. Ed è sotto l’insegna sia della pace che della cooperazione internazionale con il Mali che la Focsiv vuole celebrare, non astrattamente, la ricorrenza dell’enciclica. E lo fa mettendo in evidenza 4 suoi progetti che combattono assieme, con la presenza di volontari italiani, sia la carestia che la guerra. Le organizzazioni che promuovono i progetti sono il CISV che con la campagna “alimentare la pace” interviene a supporto di allevatori ed agricoltori al fine di garantire la “sicurezza alimentare”. Poi l’LVIA e l’ENGIM con progetti “post emergenza” che aiutano il ritorno a casa dei molti sfollati scappati dal nord del paese ove la follia infuriava per rifugiarsi nella regione di Mopti. Ed infine IPSIA che ha garantito cibo a 4 villaggi Dogon isolati dalla guerra. Da quella guerra che la “Pacem in terris” vuole bandita dalla storia.


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