La sfida al dromedario e la lettera a Satana

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Solo lui poteva accettare di andare al cinema Sistina a vedere col vostro cronista «Il gobbo di Notre Dame». Solo lui poteva ammiccare perfino sul processo che lo vedeva accusato a Palermo di rapporti con la mafia: «Se posso dirlo, è stato un colpo gobbo».
In realtà , diceva di non essere «un gobbo naturale»: «Da piccolo ero drittissimo. Diciamo che la mia è una gobba acquisita, per una certa tendenza a stare comodo». Assicurava tuttavia di non averla accentuata per snobismo: «No, questo no. Ma non mi ha mai dato fastidio. Forse se uno è gobbo per davvero è diverso. Ma io non mi sono mai posto questo tipo di problema». In ogni caso ammetteva di «aver avuto spesso il sospetto» che qualcuno fingesse di toccargliela inavvertitamente sperando portasse fortuna. Lui, giurò, non si toccava mai: «Ma potrebbe essere un’idea…»
Quale sia stato il ruolo politico del più longevo e discusso dei nostri uomini di potere in tanti passaggi misteriosi della storia italiana lo accerteranno (forse) gli storici. Quale sia stato il suo ruolo nell’immaginario collettivo lo stabilirono i giurati del premio della satira Forte dei Marmi. Che gli riconobbero «il merito d’aver inventato le orecchie di Pericoli, le gobbe di Forattini, il ghigno di Altan, il bianconero di Chiappori e l’esistenza di Evangelisti».
Non c’era occasione che non rovesciasse in una battuta. Gli italiani erano terrorizzati da Chernobyl? Ridacchiava: «Il più preoccupato sono io: ho le orecchie a foglia larga». «Panorama» lanciava il gioco «Metti nel sacco Andreotti e vinci un’auto»? Prendeva carta e penna: «Esigo quella macchina: l’unico che può mettere nel sacco Andreotti sono io». Un’audizione parlamentare sul Golpe Borghese tirava in ballo la presenza di «golpisti armati fino ai denti»? Sdrammatizzava: «Preciserei: fino alla dentiera». Lo accusavano di avere incontrato e baciato Totò Riina? Affilava un sorrisetto: «Credo di non aver mai baciato i figli, nella mia vita. E raramente mia moglie. Certo, nei confronti di Totò Riina è stato diverso: per lui l’attrazione è stata più forte di tutto». Imputavano di nefandezze la corrente democristiana che a lui si richiamava? La buttava in ridere: «Sono Andreotti, non lo nego. Ma non sono andreottiano».
Un giorno verso la fine degli anni 80, da presidente del Consiglio, fu accolto a Venezia da un fittissimo lancio di uova. Sotto quella grandinata il giornalista Rai Delfo Utimpergher, folgorato da uno dei pallettoni giallastri mentre gli allungava il microfono nella calca, ansimò: «Presidente, presidente! Me go ciapà  un vovo!». E lui, impassibile: «Le uova fanno bene alla pelle».
Accusato di ogni schifezza, faceva spallucce. E una volta sospirava «meno male, col ratto delle Sabine non c’entro…», un’altra contrattaccava: «L’unica cosa di cui non sono stato mai sospettato è la complicità  con Bruto nell’uccisione di Cesare». Accoppiato nelle vignette al Demonio, scrisse a Satana sul mensile «Lettere» una lunga epistola ironica: «Se poi, non si offenda, si arrivasse a concludere che davvero Lei è un’invenzione, ne riporterei personalmente un beneficio. Taluni miei avversari, pubblici o privati, la smetterebbero finalmente di chiamarmi Beelzebub».
Sosteneva che «in politica ci sono più Dracula che donatori di sangue». Che «i rospi è meglio ingoiarli da girini». Che «il potere logora chi non ce l’ha». Che è bene alzarsi come faceva lui alle cinque di mattina: «Dossetti alle tre e un quarto, ma lui è un santo». Che non sentiva affatto Licio Gelli tutti i giorni: «Non lo facevo neanche con mia moglie quando eravamo fidanzati». Che poteva avere sbagliato qualche amicizia però «anche gli apostoli non si accorsero di avere un Giuda, eppure diventarono tutti santi».
E tante ne accumulò, di battute, che gli fu riconosciuta la paternità  anche di alcune che non erano sue. Prima fra tutte quella che gli aveva sussurrato all’orecchio il cardinale Francesco Marchetti Selvaggiani: «A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca».
A ogni nuova grana, levava gli occhi al cielo: «Zia Mariannina me lo diceva sempre: “In Paradiso in carrozza non si va”». Credeva nell’Inferno e confidò che i dubbi sulla sua esistenza erano figli «di un certo buonismo teologico» e di un certo modo di intendere la giustizia all’italiana, ondeggiando «tra la richiesta della pena di morte e quella di abolire le multe». Diceva che no, non temeva di finirci: «Non mi considero virtuoso ma tra miei i peccati non ci sono certo i rapporti con la mafia o il delitto Pecorelli. Fosse per quelli potrei essere canonizzato». «Mai detto bugie?» «Ma si figuri, sicuramente». Perché non si può far politica senza dirle? «Forse non si può neppure vivere senza dirle».
Denise Pardo de l’Espresso gli domandò: «Il potere è un afrodisiaco?» Borbottò: «Beh, di altro tipo, non credo che sostituisca l’eros. Sarà  un fatto di superbia, ma non ho mai pensato che possa accrescere qualcosa di me stesso. Naturalmente essere ricevuto alla Casa Bianca fa più piacere che essere accolto alla Casa del passeggero».
Chiudendo un’intervista mi disse: «Vuol sapere cosa vorrei fosse scritto sulla mia epigrafe? Data di nascita, data di morte. Punto. Le parole delle epigrafi sono tutte uguali. A leggerle uno chiede: scusate, ma se son tutti buoni dov’è il cimitero dei cattivi?».


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