Le imprese italiane vogliono o no «abiti puliti»?

Loading

Se la cavano invece i comprimari di quel dramma: le decine di marchi occidentali che in Bangladesh fanno profitti grazie ai pochi scrupoli di molti signor Rana e a salari da un dollaro al giorno che hanno scioccato persino papa Francesco. L’Ufficio internazionale del lavoro (Ilo) ne ha approfittato per ricordare al governo che è ora di un programma che preveda un serio utilizzo della legge, garanzie di salute e sicurezza, diritti e salari. Un programma che non si può disgiungere dal senso di responsabilità  che anche il mondo degli affari dovrebbe dimostrare. Una petizione online, promossa tra gli altri dalla campagna «Abiti puliti» chiede a tutti i marchi coinvolti nel lavoro del tessile bangladeshi di firmare il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement promosso dall’ International Labor Rights Forum per evitare nuovi drammi (prevede controlli e che ogni azienda produttrice straniera versi una piccola somma per garantirli). «Dal crollo della fabbrica Spectrum nel 2005, il rispetto della sicurezza degli edifici e delle norme antincendio è stato ripetutamente chiesto ai marchi che si riforniscono in Bangladesh. Questi – dice Deborah Lucchetti di Abiti puliti – non possono più nascondere le loro responsabilità  per l’inerzia dimostrata nell’evitare che queste tragedie si verifichino. Non vi è alcuna ragione per ulteriori ritardi nella firma dell’accordo». C’è però chi ancora non l’ha firmato o non si è fatto avanti per garantire un compenso alle famiglie delle vittime. Le aziende italiane (cinque) che avevano a che fare con le fabbriche coinvolte nel crollo hanno in parte ammesso con vari distinguo (vecchi ordini, affari ormai conclusi) ma non hanno fatto accenno a compensazioni o alla firma dell’accordo. I nomi ormai sono noti: Itd, Pellegrini, De Blasio, Essenza, Benetton. Quest’ultima aveva addirittura negato ma poi il ritrovamento di un ordine commerciale e di etichette tra le macerie del Plaza le hanno fatto ammettere il coinvolgimento. Sarebbe interessante sapere che passi intendono fare: se hanno deciso, come la Disney, di ritirarsi dal mercato per non correre rischi di immagine o se invece, come alcune società  occidentali, pensano che sia giusto partecipare al lutto facendo fare un passo avanti ai diritti dei lavoratori che ci cuciono T-shirt e pantaloni.


Related Articles

Lavoro, le scelte inevitabili

Loading

 PER questo esecutivo non ci può essere luna di miele. Se qualcuno poteva nutrire ancora qualche dubbio a riguardo, gli sarà  passato partecipando ieri all’assemblea di Confindustria.
Squinzi ha evocato lo spettro del baratro, un’immagine abusata e oggi fuorviante perché non siamo più, come nel novembre 2011, sull’orlo di un precipizio. Stiamo, invece, questo sì, da ormai 20 anni e per lunghi tratti con la benedizione di Confindustria, inesorabilmente scivolando verso il basso, testando i nuovi limiti nel peggio.

L’EUROPA PUà’ SALVARSI SE SI LIBERA DELL’EURO

Loading

    Sabato il Times ha pubblicato un articolo che parla di un fenomeno apparentemente in crescita in Europa: suicidi imputabili alla “crisi economica”, persone che si tolgono la vita in preda alla disperazione per essere rimaste senza lavoro o aver visto fallire la propria azienda. Un articolo straziante. Sono sicuro, tuttavia, di non essere stato l’unico lettore, specialmente tra gli economisti, a essersi chiesto se la vera questione non riguardi tanto i singoli individui, quanto l’evidente determinazione dei leader europei a far commettere un suicidio economico all’intero continente.

Il rebus dei centri per l’impiego e la concorrenza dei privati

Loading

I centri per l’impiego sono tornati all’attenzione della politica. È bene che sia così perché su tutto il territorio nazionale sono 529 e occupano circa 6.600 operatori (in precedenza erano 10 mila).

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment