Sinistra, batti un colpo. Sulle macerie di una nazione un elettore si interroga

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Senza il «fumo» che rischiano le ideologie, e che poteva rendere la sua ultima prova «risorgimentale» a rischio di meccanicità , qui l’invenzione, il paradosso, lo scarto improvviso e il ribaltamento dei personaggi rendono tutto il racconto assolutamente «politico», ma senza risparmiare risate e amarezze, delusioni e tifo identitario. Sicuramente aiuta il drammaturgo Celestini, la scrittura dei libri che ormai pubblica numerosi: le costruzioni, i particolari, gli affondi sono disegnati con precisione rigorosa, libera poi di indossare la semplicità  tutta apparente dell’autore/attore, il suo occhio furbamente sgranato, l’atarassìa pigra di certi personaggi, mentre in ogni spettatore cresce l’imbarazzo e il fastidio e il «senso di colpa» per quello che ha fatto (e più spesso non ha fatto) il grande, supposto, partito della sinistra.

Perché fondamentalmente di questa inadeguatezza tra le parole e le azioni, raccontano i Discorsi alla nazione. Senza retorica e pompa, ma con la sincerità  incontrovertibile di chi fatica e lavora, magari ha risparmiato e si è fatto la casa, per dover subire oggi le vessazioni di uno stato corrotto e ingordo, mentre la vita di ognuno si deteriora e degrada, ogni cosa si fa più difficile, e la sopravvivenza sempre più dura. Il perno almeno iniziale su cui ruota la visuale di questa ricognizione impietosa, è proprio il Partito, oggi timidamente «democratico» un tempo orgogliosamente «comunista italiano». Non ha nostalgie certo Celestini, ma la semplice osservazione scrupolosa dei comportamenti e delle scelte, gli permette anche quello scavo antropologico che ci mostra l’elettore deluso e anche quello che cerca rifugio altrove, nelle 5 stelle o nell’astensione, o magari in qualche raggruppamento che gli dia qualche soddisfazione identitaria in più.

Proprio in questi giri di periscopio, nello scoprire maliziosamente quanto contigue siano le insoddisfazioni di una parte con le fasulle illusioni dell’altra, tutte soggette a una verbosità  inconcludente che non coglie necessità  e pericoli veri, sta la parte teatralmente più godibile dei Discorsi . Che suonano stentorei o masticati, nobili o canaglieschi, fanno riferimento a miti ideali o a pessimi luoghi comuni su Vendola o Rosy Bindi. Sono tutti però, nella mostruosa galleria di Ascanio, tutti pericolosamente vicini, pronti a trovare l’iniziativa per le ragioni più fasulle, e a chiudersi nella più ignava indifferenza quando magari sono principi fondamentali ad essere lesi. Tutto espresso e raccontato con parole semplici, in un raro «materialismo» teatrale che rende tutto tangibile e identificabile. Non solo gli oggetti disseminati chissà  perché in palcoscenico, ma anche Bersani visto nella sua triste campagna elettorale, o gli altri volti del Partito che davvero sembra girare su se stesso, e lontano dai suoi elettori. Ma per fortuna Celestini non è un Savonarola (e neanche Crozza), e la conquista di quella consapevolezza ci viene servita su un piano di ricchissima umanità , di osservazioni riconoscibili e riconducibili, di una speranza che non vorrebbe proprio morire. E in quel circolo, borgataro o piccolo borghese, o se si vuole mediatico, quei Discorsi delineano tutto il paese che ogni momento rischia di appiattirvisi.

Eppure la consapevolezza di quella crisi, di quei fraintendimenti, di quegli oscuri poteri, può servire a cercare una via d’uscita. Basterebbe rispedirli alla Nazione, quei Discorsi, per cercare il percorso giusto. Tra riso e acidità , Ascanio Celestini ce ne indica con delicatezza e convinzione almeno i passi e i mascheramenti sbagliati.


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