Un blocco sociale per il post-liberismo

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Nella mucillagine cui è stata ridotta la società  italiana da un ventennio di egemonia neoliberista in salsa berlusconiana e da una decrescita infelice che distrugge certezze e fiacca resistenze, per vedere all’orizzonte il soggetto di una possibile trasformazione bisogna abbandonare gli schemi novecenteschi. Il lavoro salariato non costituisce più un’identità  di massa, i partiti politici sono ridotti da tempo a scatole vuote e le identità  illusorie costruite dal neoliberismo non perdono la loro egemonia sulla società . La situazione in cui ci troviamo è il punto di arrivo di una deriva cominciata con il boom economico del dopoguerra, lucidamente denunciata da Pier Paolo Pasolini fin dagli esordi, quando l’ideologia dell’individualismo proprietario e dell’edonismo consumista, in buona sostanza l’americanizzazione della società , andava modellando un blocco sociale che sostituiva nuovi valori, legati al mercato, a quelli vecchi, sanfedisti e clericali.
Produrre analisi e contenuti utili a cementare un blocco sociale alternativo a quello denunciato da Pasolini e a costruirne una narrazione potenzialmente egemonica è l’obiettivo dichiarato di Giulio Marcon e Mario Pianta, che hanno riassunto in un libro un lavoro pluriennale di analisi e proposte per uscire “da sinistra” dalla crisi: Sbilanciamo l’economia (Laterza, pagg. 188, euro 12). I due autori affrontano questioni politiche decisive: la crisi degli Stati e l’Europa, la democrazia ridotta a tecnicismo e populismo, la profonda recessione economica, i movimenti sociali e la loro difficoltà  di andare oltre l’indignazione.
I numeri rendono esplicita l’entità  del disastro: l’Italia ha perso in cinque anni il 25% della sua produzione industriale, la disoccupazione reale si aggira attorno al 18% e, se a questa si aggiungono il precariato diffuso, il crollo del reddito medio, la sempre maggiore finanziarizzazione dell’economia, i tagli alla ricerca che si riverberano nell’assenza di innovazione e producono una nuova emigrazione intellettuale il cui saldo è addirittura in attivo rispetto all’immigrazione, si capisce quanto drammatica sia la crisi sociale che sta spingendo l’Italia verso la periferia dell’Europa. Una catastrofe che non ha impedito al 10% della popolazione di arricchirsi ulteriormente, attraverso la speculazione finanziaria, il circuito dell’illegalità , l’evasione fiscale oppure approfittando delle politiche “di classe” dei governi.
Eppure, ogni scorciatoia antieuropeista è impensabile, nonostante il deficit di democrazia nell’Unione e le politiche di rigore economico. È a quel livello che bisogna agire, pur se, ammettono Marcon e Pianta, perfino i movimenti sociali altermondialisti, molto attenti a coniugare la dimensione locale con quella globale, scontano un deficit di elaborazione. Il problema è l’assenza, ab origine, di uno spazio pubblico continentale. Quella sfera pubblica allargata che, per dirla con il filosofo francese Jacques Rancière, permette di «riconoscere l’uguaglianza e la qualità  di soggetto politico a coloro che la legge dello Stato respingeva verso la vita privata di esseri inferiori, riconoscere il carattere pubblico di spazi e relazioni che erano lasciati alla discrezione del potere e della ricchezza». Per Marcon e Pianta «la posta in gioco è la realizzazione di quella democrazia sostanziale che è stata ridimensionata in questi trent’anni di liberismo». Su questo progetto di rovesciamento della piramide che vuole la politica calata dall’alto hanno un ruolo fondamentale i cosiddetti “corpi intermedi”: movimenti, comitati, campagne, associazioni, reti di esperti, capaci di tenere insieme rappresentanza, deliberazione e partecipazione nonché di arrivare, tessendo reti e alleanze transnazionali, a quelle alte sfere della decisione politica che, come bunker inaccessibili, la cosiddetta governance del capitalismo mondiale fa in modo che siano irraggiungibili. Dall’esplosione della crisi globale, i movimenti sociali post-novecenteschi sono però riusciti a esprimere soltanto quella che Pierre Rosanvallon definisce «democrazia del rifiuto»: gli Indignados e gli Occupy hanno svolto un importante ruolo di «contro-democrazia», basata però su un potere di interdizione piuttosto che di costruzione di alternative.
La questione che si pongono Marcon e Pianta è come scendere dalle barricate del rifiuto e proporre un progetto politico gramscianamente egemonico. Le condizioni oggettive, per i due autori, ci sono tutte: il fallimento palese del neoliberismo spalanca praterie per un ordine del discorso antagonista. Anche quelle soggettive non mancano: produttori “verdi” e consumatori responsabili, terzo settore, altra economia, la galassia della solidarietà  sociale, comunità  locali attente al territorio sono realtà  già  ben presenti, pur se focalizzate sulle loro battaglie e incapaci di elaborare un progetto complessivo di società . È sui beni comuni che è nato il movimento più interessante degli ultimi anni. A proposito di quest’ultimo, Marcon e Pianta rispolverano un articolo comparso nel 1842 sulla Gazzetta Renana. L’autore è un ventiquattrenne Karl Marx, che prendeva le parti dei contadini tedeschi contro i proprietari terrieri che li accusavano di furto perché utilizzavano la legna secca per riscaldarsi, come avevano fatto per secoli: «Noi rivendichiamo alla povera gente il diritto consuetudinario, e non un diritto consuetudinario locale, ma tale da costruire il diritto della povera gente».
Individuato il “soggetto” della trasformazione, il terreno di scontro è l’egemonia nella società . Marcon e Pianta non si arrendono all’evidenza di un Paese in cui la frammentazione sociale, aggravata dallo smantellamento del welfare e dalla cancellazione di ogni residuo di collettivismo, potrà  produrre solo ribellioni individuali e nichiliste. Per sventare ulteriori pericolose derive, sostengono, bisogna far propria la lezione degli anni ’30, quando – come ha scritto Karl Polanyi in La grande trasformazione – «proprio perché il mercato minacciava non gli interessi economici ma gli interessi sociali di diverse sezioni trasversali della popolazione, persone appartenenti a vari strati economici univano inconsapevolmente le loro forze per affrontare il pericolo». Gli sbocchi politici dell’«autodifesa della società » nei confronti dell’economia sono stati il nazismo da una parte e il new deal rooseveltiano dall’altra. Oggi, in presenza di un’analoga Grande Depressione, ci troviamo di fronte al riemergere di populismi e, viceversa, alla possibilità  di ripartire dal crescente rifiuto del dominio del mercato sulla società , dell’individualismo esasperato e del profitto a tutti i costi. È su questa base, per Marcon e Pianta, che bisogna lavorare per costruire la prospettiva di uno «sviluppo nuovo» che aggreghi un blocco sociale post-liberista, appunto, e faccia sbocciare, dal declino italiano, nuove culture e comportamenti.


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