La sindrome cinese spaventa i mercati

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NEW YORK — La turbolenza innescata dalla Federal Reserve americana colpisce in pieno l’eurozona. L’inversione di tendenza nella politica monetaria americana, giustificata dalla ripresa Usa, contagia un continente che invece è ancora in piena recessione. L’effetto-domino è spietato: le vendite di buoni del Tesoro Usa, scatenate dall’annuncio che la Fed smetterà i suoi acquisti nel 2014, si sono estese ai titoli pubblici di Italia, Spagna e Grecia. I rialzi dei rendimenti sui titoli della periferia dell’eurozona sono dell’ordine di 100 punti base (un intero punto percentuale dall’inizio di maggio). I deboli registrano la turbolenza in modo più amplificato rispetto all’epicentro forte: in America i Treasury bond decennali hanno visto i loro rendimenti salire da 2,10 a 2,66% cioè metà dei rialzi italiani e spagnoli. Sui mercati si riaffaccia così il timore di una crisi dell’eurozona.
L’altro focolaio di paura si conferma essere in Cina. La Borsa di Shanghai ha subito il tracollo più pesante da tre anni: -5%. Il problema cinese si chiama “credit squeeze” o “credit crunch”, la settimana scorsa si è rasentata la paralisi del mercato interbancario. Colpite da voci di crac e insolvenze di qualche istituto di credito, le banche hanno cominciato a diffidare le une delle altre. Il timore è che possa accadere un “remake” di quel che si verificò negli Stati Uniti all’epoca della bancarotta di Lehman Brothers. Nel caso cinese però almeno finora è stata una crisi pilotata dalla stessa banca centrale, che volutamente ha provocato una severa stretta creditizia per castigare gli eccessi speculativi e combattere la metastasi di un “sistema bancario-ombra”. Se l’operazione riesce, nell’intenzione dei governanti cinesi dovrebbe garantire un atterraggio morbido verso tassi di crescita più sostenibili (7% annuo di aumento del Pil invece del 10% di alcuni anni fa) e sgonfiare in modo quasi indolore le bolle speculative.
Fra tutti, il mercato americano è quello che ieri ha tentato di digerire in modo meno traumatico l’annuncio dato la settimana scorsa dalla Fed. L’indice di Borsa più rappresentativo, lo Standard & Poor’s 500, ha perso complessivamente il 6% rispetto al massimo del 21 maggio. Se la caduta dovesse raggiungere il 10% si entrerebbe in una fase di “correzione” tecnica, la prima da due anni. Molti infatti vedono il lato positivo della decisione della Federal Reserve. Se la banca centrale diretta da Ben Bernanke ha l’intenzione di porre fine nel 2014 ai suoi massicci acquisti di bond è perché si è convinta che questa ripresa ha le gambe per camminare da sola. I rialzi dei tassi provocano perdite automatiche nel valore dei bond, ma per le azioni una ripresa dell’economia reale dovrebbe essere benefica. Ieri uno dei dirigenti della Fed ha messo in guardia contro gli atteggiamenti speculativi da parte degli investitori più spregiudicati. Richard Fisher, presidente della Federal Reserve di Dallas, ha paragonato quelli che remano “contro” la Fed all’azione di George Soros che nel 1992 speculando contro la sterlina la costrinse a uscire dal Sistema monetario europeo. «Il grande capitale si comporta come un branco di cinghiali selvaggi che si eccitano se sentono odore di sangue. Ma nessuno può spezzare la Fed, chi ci prova se ne accorgerà ». Secondo Fisher una parte degli investitori crede che la Fed non sia del tutto convinta che sia giunto il momento di rallentare gli acquisti di bond; questi investitori sperano che una caduta dei mercati possa piegare Bernanke e convincerlo a tornare sui suoi passi.


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