Addio al “tesoro dei privati” con banche, famiglie e imprese il debito totale è al 400% del Pil

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L’ULTIMA volta che si ricordi una battaglia del-l’Italia nel G20, fu su un tema trattato di rado in un vertice internazionale: il debito privato. Era l’inizio del 2011. Il governo di Berlusconi in quei colloqui svoltisi a Parigi si impegnò perché il G20 includesse l’esposizione finanziaria delle famiglie e delle imprese fra gli indicatori di stabilità di un’economia. «Questa è la posizione giusta, il nostro Paese ha un grande debito pubblico ma anche un minimo debito privato», dichiarò Tremonti.

NESSUNO in Italia obiettò. Se c’è nel Paese un accordo bipartisan, esso riguarda il fatto che le famiglie e le imprese hanno bilanci solidi ma sono intrappolate in uno Stato che è il loro specchio al rovescio. Non è solo Tremonti. Gli archivi traboccano di politici, sindacalisti e imprenditori sotto ogni bandiera che illustrano la stessa storia: i privati come formiche oculate, lo Stato pieno di debiti. Storicamente è sempre stato così. Il problema è che mentre questo mantra veniva recitato quasi ovunque, pochi si sono accorti che i numeri stavano cambiando. E nella crisi hanno continuato a farlo fino a raggiungere, in silenzio, una nuova soglia psicologica: alla fine del 2012 la somma dei debiti di famiglie, imprese, istituzioni finanziarie e Stato ha raggiunto il 400% del prodotto lordo.
È quanto registra Haver Analytics, un consulente dei grandi investitori. Va fatto subito un distinguo: riguarda le banche, che Bankitalia per esempio non include nella stima nel debito totale perché esse non fanno che intermediare prestiti e non cambiano l’esposizione complessiva di un paese con se stesso. È vero in effetti che il debito italiano detenuto all’estero è (relativamente) basso, circa un terzo di quel 400% del Pil.
Ma la realtà di fondo cambia poco. Da quando l’Italia fu ammessa nell’euro nel 1998 all’inizio di quest’anno, il debito privato in Italia è salito di oltre il 130% del Pil. A dicembre 2012 gli oneri finanziari totali nel Paese (pubblici e privati) erano arrivati al 400,95% del Pil, mentre all’inizio del ‘98 era al 264%. È su questa cifra che banche, imprese, Stato e famiglie devono pagare un interesse reale che sale in proporzione a quanto scende il Pil. Certo alcuni Paesi, la Spagna, la Grecia, il Portogallo, o anche l’Olanda, sono arrivati anche oltre. Ma l’Italia non era mai giunta a questo punto nella sua storia unitaria. Gli oneri finanziari che gravano su quest’economia in contrazione da due anni sono di circa 6.000 miliardi: l’equivalente di circa 100 mila euro per abitante, neonati, ultra-centenari e immigrati inclusi. Peraltro l’unico settore che dal ’98 ha aumentato la sua esposizione solo di poco è quello del quale ci si preoccupa (comprensibilmente) di più: lo Stato.
A titolo di confronto, nella precedente crisi finanziaria italiana del 1992 la situazione si presentava diversa. Neanche la Banca d’Italia sembra aver conservato i dati precisi di quell’epoca. Ma mentre nel ’92 il debito pubblico era poco sopra il 120% del Pil, più o meno come oggi, il totale del debito finanziario privato (di famiglie, imprese, istituzioni finanziarie) non arrivava neanche dell’80%. Oggi è oltre il 260%. Significa che il debito totale nell’economia, quello pubblico più quello privato, durante la crisi del ’92 era poco più della metà rispetto a oggi.
Vero è che questa resta terra incognita, in un’epoca in cui si ha l’impressione poter esprimere qualunque realtà in statistiche inappellabili. I dati sulla storia anche recente del debito sono difficili da trovare. E i numeri sul presente cambiano, di molto, secondo come li si conta. Non è tanto il caso del debito dello Stato, né di quello delle famiglie che dal
1998 a oggi è salito dal 24% al 51% del Pil e resta comunque basso nel confronto con altri Paesi. Né è il caso delle banche e delle altre istituzioni finanziarie, il cui debito è cresciuto dal 37% del Pil del 1999 al 109% del 2012 (anche perché è cambiato il modo in cui gli istituti di credito operano sul mercato).
È per le imprese invece che la situazione appare davvero complessa. La Banca d’Italia stima che il loro debito finanziario (soprattutto prestiti presi dalle banche e bond) fosse all’82% del Pil un anno fa. Haver Analytics invece include nel debito delle imprese anche i derivati e porta il dato al 117% del Pil a fine 2011: si tratta di un calcolo fatto per omogeneità fra Paesi sulla base di ciò che la Federal Reserve Usa classifica
come debito.
Comunque la si stimi, l’esposizione delle imprese resta in forte accelerazione durante il primo decennio del secolo. L’aumento di circa il 30% del Pil (superiore all’aumento del debito pubblico) è anche frutto della scelta da parte degli imprenditori del debito come scorciatoia: prima della grande crisi un fido in banca o un bond costavano poco, appena più che in Germania; dunque meglio indebitarsi che quotarsi in Borsa o affrontare i problemi di competitività. Nei primi dieci anni dell’euro le imprese hanno nascosto la loro sottocapitalizzazione accumulando debito, ma ora la musica anche si è fermata. Dal 2010 le aziende sono costrette a perseguire un’austerità privata ancora più dura di quella del governo, contribuendo a rinviare la ripresa e a alimentare le sofferenze nei bilanci delle banche che hanno prestato loro negli anni dei tassi a livelli quasi tedeschi. L’altra faccia della medaglia è invece il beneficio che un sistema indebitato per 6 mila miliardi può trarre da un calo dei tassi d’interesse: se il costo di finanziamento scendesse anche sono di 50 punti-base (0,5%) su tutte le scadenze di debito, ciò libererebbe 30 miliardi per la crescita dell’economia. Una piccola riduzione dei tassi si tradurrebbe in una manovra espansiva da due punti di Pil.
Difficile dire se ciò succederà presto. Certo continuare a negare il problema del debito totale, quello che include banche e imprese, rischia di non portare il paese molto lontano.


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