Benvenuti a Scampia

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In origine “Scampia” era l’erba che cresce spontanea e diventa secca e arida. E forse non c’è immagine migliore per iniziare a descrivere il desolante squallore dei grandi spazi cui corrisponde la concentrazione dei termitai umani, edifici che risalgono agli anni Settanta che qui chiamano “Vele”. Penso che in questo luogo dove la mitologia non ha fondato proprio nulla, semmai irrora quotidianamente i gesti e le parole di chi vi abita, il tempo cammini con molta più rabbia che altrove. Un tempo interiore, invisibile, inquietante. Che ha poco a che vedere con le ore del giorno e della notte che sembrano scorrere nella noia del sempre uguale. E che anzi incoraggiano a qualche forma di speranza. In nessun altro posto mi pare di aver visto tante volte effigiata e ben in vista la parola “felicità”. Su di un pilone c’è scritto «Quando il vento dei soprusi sarà finito si spiegheranno le vele della felicità».
Non è semplice entrare a Scampia. C’è diffidenza, pericolo, in qualche caso ostilità da parte di chi ci vive e ci soffre. C’è criminalità, tanta. Ma anche molta gente per bene. Mi accompagnano Gaetano Di Vaio e Guido Lombardi, ho appena finito di leggere il loro Non mi avrete mai.
Cos’è esattamente questo libro: un romanzo? Un lacerto di vita? Una confessione resa pubblica? Un’intima e feroce autobiografia? Di Vaio si è fatto vari anni di carcere a Poggioreale e la sua storia sta tutta scritta in questo lungo e coinvolgente racconto. Certo
romanzato, ma con un fondo inscalfibile di verità che lo rende in qualche modo unico. Come è unico, appunto, che si entri a vent’anni in un “lager” se ne esca a trenta e si abbia la forza per ricominciare. «Furono anni durissimi. Pensavo di soccombere. Perché lì dentro la tua vita non vale niente. Se non sei affiliato alla camorra sei un cane morto. Ma se ti leghi ad essa è come entrare in un altro carcere, perfino più duro e spietato. È stato questo il primo problema: dove mettermi, io che per tutta la vita precedente ero stato un criminale in proprio ».
Guido lo guarda e si fuma l’ennesima sigaretta che ha rollato. Guido dice che Gaetano ha un’energia pazzesca, perché uno che si è fatto pesantemente di droga, che è vissuto per anni di scippi, rapine e spaccio e poi diventa produttore cinematografico di un certo successo non accade neppure nei film. E i film sono la loro passione. E il sangue che gli scorre nelle vene sono fotogrammi, inquadrature, storie di vita. Come quelle bellissime che Guido ha raccontato con Là-bas, che ha pure vinto un premio importante a Venezia, e Gaetano con Il loro Natale, una vicenda splendidamente drammatica sui familiari dei detenuti di Poggioreale.
Scendiamo dalla macchina, nell’unico punto di ritrovo che Scampia offre: una piazzetta con un bar, un giornalaio, una sala slot e accanto un presidio della polizia. Sembra che tutto conviva nell’apparente quiete di una mattina assolata e calda. Bisogna incontrare il comitato di lotta di Scampia. Sono i componenti che decideranno se lo “straniero”, cioè me, può entrare. Sono stanchi di un certo folklore; stanchi dei politici che sotto le elezioni fanno la passarella, promettono e poi spariscono; stanchi degli annunci a vuoto; sono stanchi perfino di essere stanchi. Sono stanchi di sentirsi dire che c’è la crisi. Perché la crisi da loro precede tutte le crisi possibili. E le riassume. Una ragazza che avrà trent’anni si appoggia a uno scooter, ha i polsi carichi di braccialetti e la pelle piena di tatuaggi, sulla maglietta porta scritto “time for love”. Compulsa i tasti di un cellulare. Di amore a Scampia ce n’è poco. Entriamo. Le “Vele” sono imponenti: espressione di una modernità impazzita, frutto di un teorema antropologico che riduce l’uomo a una sottospecie animale. «Devi fare caso non all’insieme che può trasmettere un suo fascino perverso, ma al dettaglio che umilia e frastorna», avverte Gaetano. Saliamo le scale. Sui vetri infranti delle finestre si apre l’inferno di fronte: un’altra Vela che rimanda a mille storie di disperazione e rabbia. Che fanno di là?
Chiedo «Quello che fanno di qua, niente. Qui tutto è congelato da anni, da decenni, da sempre». Sui muri antiche scritte sbiadite: “Il cazzo è cecato”, recita una. Ridiamo. Ma poi penso che un modo di sopravvivere è cercare di non vedere. Di cimentarsi con il buio della vita, con l’amianto delle case, con le grida e con il silenzio.
Dalle scale, sotto lo scroscio violento di un’acqua che da mesi fuoriesce da tubature rotte, si vede un cortile interno. Sembra una discarica a cielo chiuso che dà su delle cantine. A Gaetano trema un po’ la voce: «Vedi, quelle sono diventate le stanze del buco. Vengono i tossici, non solo da Napoli, ma da altre città del Sud, comprano la merce e si fanno tranquilli e rassegnati come animali al macello ». Ne scorgo uno, compostamente seduto sullo scheletro di una sedia mentre si infila un ago. Altri tossici aspettano nervosi, forse insospettiti dalla nostra presenza. Nelle “Vele” ancora oggi si concentra l’attività di spaccio più forte d’Italia. È qui che Gaetano spacciava.
Erano gli anni di Maradona al Napoli, quando tutta la città pazziava e sognava per il pallone. Gli anni delle faide tra clan, dei morti sparati e spariti; della coca a gogò e del boom dell’eroina, del controllo militare su Scampia da parte della camorra. Chiedo a Gaetano come ha fatto a essere un criminale senza finire affiliato in qualche clan: «Ci hanno provato. Ma poi a loro bastava che gli portassi i soldi. Non è stato facile restare fuori da quel sistema che ti lusinga e ti minaccia. Ma io provenivo da una cultura proletaria; da una famiglia sana. Quando mia madre capì che strada avevo intrapreso, mi disse ti do tre consigli, Gaetà: non ti fare i tatuaggi, non entrare nella camorra, non ti drogare. Sapevo che dalla camorra non sarei mai uscito, dalla droga sì. Ce l’ho fatta a uscirne, e con il carcere ho lavato le mie colpe”.
Negli anni della galera Gaetano non ha incontrato solo violenza e umiliazioni, ma anche i libri e le persone, rare d’accordo, che glieli hanno messi in mano. Il romanzo racconta come si risale dagli inferi, come uno su mille, uno su un milione, ce la possa fare. Lasciamo Scampia, Gaetano vuole farmi vedere gli altri luoghi del romanzo. Andiamo a Marianella, un quartiere a Nord di Napoli dove vive e poi a Piscinola, dove è
nato. È come un processo liberatorio che passa attraverso la memoria, e il ripensamento del fasto opaco e ribaldo di quei giorni. Non si può continuare ad avere vent’anni. Ma forse Gaetano non ha mai avuto vent’anni, perché se li avesse avuti veramente non avrebbe permesso a nessuno, come dice l’abusata letteratura, di sputarci sopra. «Sono cresciuto in un mondo senza opportunità », lo dice senza giustificarsi, senza sollevare l’eccezione morale, senza appellarsi alla necessità. È semplice: se rubi sei un ladro; se uccidi sei un assassino: «Non ho mai sparato, ti devi dare un limite se non vuoi essere completamente travolto».
La faccia di Gaetano è una geografia di emozioni, quella di Guido imperturbabile e malinconica. Per Guido il mondo sono le immagini, metafore solo abbozzate di un mondo interiore ricco, elaborato attraverso il confronto aspro con una famiglia borghese del Vomero, dove è nato e vive. Ed è come se chiedesse scusa per le sue origini, per le sue scarse parole, per i suoi ripetuti silenzi.
Scampia, penso, non è solo un luogo è un’idea condannata alla corruzione permanente. E qui paradossalmente risiede la sua forza. È il mito di una Napoli senza più volto: «Ha sostituito il Vesuvio », commenta ironico Gaetano. Come un mito evoca narrazione, inferno e una rara speranza.
Dentro la Citroen di Guido sembriamo pesci in un acquario. Muti. Con gli occhi a palla, deformati dai pensieri e dalla fatica guardiamo scorrere il traffico bestiale di Secondigliano. Un carrettino improvvisato, ai bordi della strada, vende orzate. Verrebbe voglia di fermarsi.
Ma è tardi. Mi torna alla mente la voce di Gaetano. È un timbro che gratta, raschia, trapana. Penso che arrivi dal buio degli anni trascorsi a Poggioreale. Una voce che ha imparato ad addomesticare i pensieri. E mi chiedo che cosa sopravviva dentro questo esempio di “redenzione” del passato che non passa, delle parole che non bastano a spiegare, a dire, a raccontare. E penso che in questa storia non ci sia un vero finale perché Gaetano e Guido andranno avanti, o magari solo di lato, con altri fantasmi. Dicono che hanno quasi terminato il nuovo film e che è una storia cazzuta. Dicono che hanno in canna la seconda parte del romanzo. Dicono che l’erba di Scampia un giorno forse diventerà verde.


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