LA FINE DELLE STORIE

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Perché molti romanzi attualmente si appoggiano a fatti “realmente accaduti” e ci tengono a sottolinearlo? Non è un’abdicazione della fantasia e della stessa autonomia letteraria? Di fronte allo sterminato campo aperto dell’invenzione, perché restringersi nell’angusto orizzonte dei “fatti”, perché dipendere da una valutazione empirica, documentaria? «Nel conoscere ciò che è stato davvero, c’è un interesse vivo, potente e speciale»: così scriveva Alessandro Manzoni nel suo saggio sul romanzo storico e sui componimenti misti di storia e d’invenzione. Ogni interesse culturale si bilancia col salire e crescere di altri interessi nel borsino dell’attualità: non so se l’interesse per la storia valga oggi quel che valeva negli anni
Trenta dell’Ottocento, ma di sicuro il diluvio di fiction ha svalutato assai l’interesse per le narrazioni totalmente inventate. Il campo della fantasia più che aperto è spalancato a ogni spiffero: siamo inondati di vampiri, guerrieri medieva-li, cybernauti e di quei lemuri più insidiosi che sono gli stereotipi cinematografici e televisivi, esseri fantastici travestiti da gente reale e quotidiana. L’invenzione è sottoposta a usura e rischia l’entropia; la bella menzogna letteraria è inficiata dalle troppe menzogne che vediamo intorno. Ma la tenaglia manzoniana, che lo portò a rinnegare il romanzo storico e a decretarne la morte, è sempre lì: se vogliamo raccontare le cose come stanno, allora non possiamo inventare. «Non c’è per l’errore nessun posto più incomodo», scriveva, «e dove possa meno fermarsi, che vicino alla verità».
Un uomo onesto come Roberto Saviano rischia di farsi schiacciare da questa tenaglia e confessa lui stesso che dal ruolo di scrittore si sente sempre più spostato verso il ruolo di testimone.
Molti, nonostante tutto, insistono a rimanere sul discrimine spurio, esposti agli equivoci e alle contestazioni. Leggendo il recente La théorie de l’information di Aurélien Bellanger un non-francese può benissimo cascarci e credere che il protagonista esista davvero (almeno fin che, nelle ultime cinquanta pagine, non comincia a fare cose pazzesche e visionarie); e inversamente, se non conosciamo la storia serba, potremmo sospettare che Clara Usón ne La figlia abbia inventato appunto una figlia al generale Mlàdic, come Antonio Scurati ha inventato un fratello a Emilio Morosini in Una storia romantica.
Qualunque storico, antico o contemporaneo, ha il diritto di rimproverare un romanziere che invada il territorio di sua pertinenza, facendogli notare le imprecisioni, le esagerazioni, o semplicemente le semplificazioni che attengono a qualunque stilizzazione e messa in forma. Dal canto suo, qualunque lettore può accusare il narratore spurio di pigrizia e impotenza creativa. Ma allora perché gli storici, sempre più spesso, si avvicinano al romanzo? La voga per la microstoria ha fatto cadere la distinzione manzoniana tra carta geografica (dello storico) e topografica (del romanziere): il mugnaio Menocchio di Carlo Ginzburg o il Martin Guerre della Zemon Davis non sono meno interessanti dei personaggi inventati; l’ammutina-
mento del Bounty è più dettagliato e complesso in Mr Bligh’s Bad Language di Greg Dening che nel film con Marlon Brando. C’è chi, avvertendo il problema, scrive due testi più o meno sulle stesse vicende ma una volta da storico e l’altra da romanziere (è il caso di Alessandro Barbero e del suo Gli occhi di Venezia, storia inventata su uno schema che risale al romanzo ellenistico ma scritta a pendant con un austero volume su Lepanto, La battaglia dei tre imperi).
Un testo integra e corregge l’altro, ma anche accusa l’altro di manchevolezza.
La mia idea è che il ricorso del romanzo alla non-fiction non dipenda da una fame di realtà più intensa ora che nel passato, ma sia piuttosto il sintomo di ciò che manca alla realtà; per non dire addirittura una critica della realtà, che ostinata si sottrae a ogni forma bella e ragionevole. Emmanuel Carrère in Limonov ci tiene a distinguere tra quel che ha saputo direttamente, quel che ha letto e quel che è costretto a immaginare; sa che congettura e suggestione hanno un diverso statuto. Ma lo scrupolo nel dichiarare le fonti è anche una tecnica per entrare nel libro in prima persona (già durante la gestazione di L’avversario si era convinto di dover evitare l’ipocrisia di Capote, che aveva nascosto il coinvolgimento personale con uno dei due assassini di A sangue freddo).
Limonov è per Carrère la sua ombra nera, il fratello sbagliato ma anche quello che lui non ha saputo essere. Ogni romanzo storico degno di questo nome è un’allegoria metastorica, parla del presente e del proprio autore.
Point Lenana,di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, racconta l’atto gratuito di tre prigionieri italiani in Africa che nel 1943 evadono dal campo di prigionia per scalare il Monte Kenia a 5000 metri, poi ne scendono e si riconsegnano agli inglesi; ma parla anche dell’immobilismo di oggi in Italia e del disperato bisogno di “rimettere in moto il tempo”. Una splendida scena di Zero zero zero, quella della cagna che porta in salvo tutti i suoi cuccioli durante l’incendio di un campo, non sappiamo se è vera o inventata ma certo ci parla di una delle ossessioni di Roberto Saviano, il coraggio. Lo stesso Manzoni si sottovalutava: il suo racconto di alcuni popolani oppressi da un nobile, che alla fine vincono attraversando una rivolta e una strage collettiva, sarà forse manchevole rispetto alla Storia della Colonna Infamema
ci dice moltissimo sull’impossibilità in Italia di un analogo della Rivoluzione Francese.
Come ci insegnavano i classici, mentre la storia racconta ciò che è accaduto, il romanzo ci racconta quel che avrebbe potuto accadere; o che potrebbe accadere nel presente, o che potrà. Il modo di conoscere della narrativa è olistico, ambiguo, emotivo, ma non per questo del tutto irrazionale: conosce, o cerca di conoscere, una verità più radicale e profonda di quella che ci fornisce la cronaca; quando si impiccia con la storia è per dire quel che la storia o la politica non possono dire perché non hanno le prove (su questa ambizione restò interrotto il Petrolio di Pasolini). Ogni bisogno di “confrontarsi col vero” dev’essere contestualizzato: negli anni Settanta il romanzo-verità e i “franchi narratori” reagivano allo sperimentalismo e all’avanguardia; negli anni Novanta si disseppellivano “asce di guerra” per smascherare le rimozioni del potere; ora reagiamo al mare di storie insulse e inutili ma insieme riveliamo il ventre molle della nostra contemporaneità.
Le narrazioni spurie più recenti sono quasi tutte biografie romanzate: come se l’individuo, che ha sempre formato l’ossatura dei romanzi, non fosse più sicuro di esistere davvero. L’intrattenimento si riempie di fatti perché i fatti sono diventati intrattenimento; l’oscillazione tra vero e inventato va incontro alla nostra voglia di cullarci nell’incertezza. Pretendendo di irrobustirci con le cose, rischiamo che le cose ci annebbino la vista. Manzoni nel suo saggio ricordava quell’avaro che, volendo far durare di più le sue lampade ad olio, mescolava all’olio un po’ d’acqua; ma il risultato era poca luce e moltissimo fumo.


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