L’Italia ai piedi della Lockheed

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Quarant’anni dopo la trama che arrivò a travolgere il Quirinale, in Italia oggi c’è un nuovo scandalo Lockheed. Coinvolge uomini di Stato e di partito, rimanendo però invisibile. Come l’F-35, l’aereo che incarna la questione.

Non si tratta di tangenti, anche se l’ombra di pagamenti illeciti dietro i grandi accordi della Difesa è ancora nell’aria: l’hanno rilanciata due ex ministri che hanno avuto un ruolo chiave nei governi Berlusconi. Lo scandalo odierno forse è ancora più grave delle bustarelle perché condiziona il futuro della tecnologia italiana, rischiando di condannarla al ridimensionamento. E mostra ancora una volta una posizione di sudditanza verso gli Stati Uniti, con l’incapacità di imporre rapporti paritari. La vicenda è semplice nella sua complessità. Oggi l’Italia ha affidato alla Lockheed le commesse militari più importanti, dal supercaccia al progetto per i missili Meads, fino all’ipotesi delle nuove navi per la Marina. Contratti che potrebbero costare ai contribuenti dai quindici ai venticinque miliardi di euro. A fronte di questo impegno, la Lockheed è il principale avversario su tutti i mercati dei prodotti hi-tech made in Italy.

Alleati e rivali. Assurdo? Il colosso statunitense è il rivale del jet d’addestramento Alenia-Aermacchi M346, messo a punto a caro prezzo con i fondi del ministero dell’Industria, nelle gare per le forniture militari in Polonia, Turchia e negli States: appalti da decine di miliardi, in cui è in gioco la capacità del nostro Paese di gestire programmi avanzati. Non è una novità. Pochi anni fa Lockheed è stata l’alleato di Finmeccanica nella commercializzazione negli Usa del cargo militare C-27J, concepito tra Torino e Napoli. Ma dopo i successi iniziali l’aereo è stato stroncato dai tagli del Pentagono ed ha avuto il colpo di grazia dalla concorrenza della stessa industria americana. Quasi una fotocopia del fallimento nella vendita alla Casa Bianca degli elicotteri Eh-10, un accordo tra Lockheed e Agusta che avrebbe aperto qualunque mercato al velivolo progettato nel Varesotto.

L’azienda statunitense offre una visione opposta e dichiara di «tenere in grande considerazione il rapporto con l’Italia. Abbiamo una relazione unica con le vostre imprese e la collaborazione continuerà a crescere». E sulle commesse saltate negli Usa nega qualunque scorrettezza: «Noi ci impegnamo duramente per vincere le gare e mantenere gli accordi, ma rispettiamo il diritto dei governi a decidere quale equipaggiamento soddisfino le loro esigenze».

Senza garanzie. A fronte degli oltre 12 miliardi che l’Italia potrebbe destinare all’F-35, oggi ci sono poche compensazioni certe. Le aziende di casa nostra costruiscono e montano pezzi disegnati a Fort Worth, Texas: ad Alenia sono state affidate le ali. Ma gli ordini non sono garantiti: ogni lotto deve superare requisiti di convenienza e affidabilità, ogni nuova commessa implica un’asta. Almeno per i primi anni, le imprese nostrane dovranno lavorare in perdita pur di essere concorrenziali. Finora i contratti firmati da Alenia hanno un importo di circa 140 milioni di euro. Per l’intero programma che andrà avanti fino al 2027, tra l’impianto di Cameri e quello di Torino si dovrebbero creare al massimo 10mila posti: ma si tratterà di personale che svolge un lavoro di manovalanza, seppur d’altissimo livello, senza elaborare nuove tecnologie.

I cinquanta ingegneri che tra il 2004 e il 2005 furono mandati nell’atelier Lockheed sono rientrati in patria senza esperienze di rilievo: gran parte delle informazioni erano top secret anche per loro, nonostante il governo fosse “partner di secondo livello” dello sviluppo con un contributo di un miliardo di dollari. Il quartiere generale dell’azienda statunitense crede che in futuro le cose cambieranno: «l’industria italiana ha avuto e continuerà ad avere un ruolo molto importante nello sviluppo del programma F-35. L’aereo continuerà ad evolversi nei prossimi decenni: per l’Italia ci saranno nuovi ritorni tecnologici man mano che questa evoluzione si concretizzerà».

Vittima del supercaccia. In queste settimane il dibattito politico è concentrato sull’utilità o meno del supercaccia, che i nostri militari ritengono sia il migliore esistente, e soprattutto sulla possibilità di sostenerne il costo in un momento di piena crisi. Nessuno invece si interroga sulle conseguenze per il sistema produttivo. «Credo che sarà uno degli argomenti da affrontare nell’indagine conoscitiva varata dalla Camera.

E’ importante capire quali sono le reali ricadute della spesa per la Difesa nell’economia del Paese e se ci troveremo ad avere operai, tecnici oppure ingegneri», spiega l’onorevole Rosa Villecco Calipari, uno degli esponenti Pd più impegnati nella materia: «Per la prima volta sarà possibile rendersi conto dei programmi militari nella loro globalità e il Parlamento esprimerà una decisione vincolante. Fino ad oggi ogni acquisto veniva presentato in modo parcellizzato, un segmento alla volta e non si riusciva a capire chi prendesse le decisioni e se quei sistemi fossero ancora utili. Nel frattempo cambiavano i ministri e i generali, mentre i finanziamenti andavano avanti. Adesso potremo renderci conto di quanto si spende realmente e valutare se quegli strumenti sono compatibili con le priorità del Paese e le necessità delle forze armate».

Hercules contro Airbus. Quanto limitato fosse il peso del Parlamento lo testimoniano anche le vicende che hanno segnato il ritorno da protagonista della Lockheed in Italia. Il primo passo venne compiuto dal governo di Massimo D’Alema con una commessa miliardaria per i velivoli C-130J Hercules, versione moderna del quadrimotore dell’antico scandalo. Una scelta con ripercussioni di lunga durata. Nel 2001 l’esecutivo di Silvio Berlusconi fu a un passo dalla crisi proprio per uno scontro sui contratti militari.

In ballo c’era l’adesione al progetto europeo per l’aereo da trasporto Airbus 400. Il responsabile della Difesa Antonio Martino si schierò sulle posizioni dell’Aeronautica, che riteneva l’Airbus inutile perché erano in arrivo i nuovi Hercules. Il ministro degli Esteri Renato Ruggiero invece credeva che entrare nel consorzio europeo fosse fondamentale per il futuro dell’industria nazionale: dopo una lite con i colleghi e con il premier, nel gennaio 2002 si dimise. Nello stesso momento Martino, affiancato dall’allora segretario generale della Difesa Giampaolo Di Paola, poi diventato capo delle Forze Armate e quindi ministro con Mario Monti, dava il via definitivo al supercaccia F-35.

Dal punto di vista dei generali, dire no all’Airbus è stato conveniente: oggi l’eurocargo non è ancora pronto e i costi sono saliti alle stelle. Nel 2010 Martino ha rivendicato sul “Foglio” la sua linea: «Non deve essere la Difesa a servizio dell’industria, ma l’industria a servizio della Difesa». E ha aggiunto: «Frodi e malaffare connessi alle forniture risalgono alla notte dei tempi e il problema non ha una soluzione infallibile. In questa, come in altre circostanze, non sarebbe male se gli interessati avessero a cuore la Difesa».

A cosa si riferiva? Un altro uomo di punta del centrodestra, l’ex ministro Rocco Buttiglione, è stato esplicito in un’intervista al “Fatto” nel 2012: «Ho avuto l’impressione che intorno a quell’affare ci fosse un enorme giro di tangenti, io ne fui testimone. Una persona vicina al governo francese aveva iniziato un discorso non proprio impeccabile. Mi faceva intuire che fossero pronte cospicue offerte in denaro se avessimo sostenuto Airbus. A quel punto interruppi il discorso. E ritenni mio dovere avvertire Berlusconi». La sfida indiretta tra Lockheed e Airbus è stata combattuta anche a colpi di mazzette? E le lusinghe ci sono state solo da parte europea? «L’indagine conoscitiva delle Camere potrà chiedere chiarezza sui nuovi programmi, agendo proprio sull’analisi dei costi», precisa Villecco Calipari: «Vogliamo che siano distinte le spese per progettazione e produzione da quelle per la commercializzazione. Perché soprattutto nelle vendite all’estero è sotto quest’ultima voce che si nascondono le zone d’ombra. Riuscire a giudicare un programma nella sua interezza ci aiuterà a capire quali sono i capitoli opachi».

Salvate il missile. Mentre lo scontro politico è focalizzato sull’F-35, alla Lockheed sono concentrati su un’altra operazione: «il più importante e duraturo programma di collaborazione sulle due sponde dell’Atlantico». Si tratta del missile Meads, un sistema anti-aereo d’ultima generazione concepito da Usa, Germania e Italia. Il progetto è in enorme ritardo, con un budget che ha divorato tutti i fondi compresi 800 milioni provenienti dalle nostre casse. Ora il Pentagono ha detto basta e annunciato la fine delle sovvenzioni. Nonostante la maggioranza sia dell’azienda americana, è il governo di Roma a fare il massimo per salvare il missile dalla rottamazione: cerca alleati, come la Polonia, che investano nell’inziativa. «Noi crediamo nel futuro del Meads e, cosa ancora più importante, lo credono anche i leader italiani», confermano dalla Lockheed: «Il direttore degli armamenti, il generale Claudio Debertolis, si sta impegnando per garantire nuovi partner. Si tratta di uno strumento rivoluzionario e riteniamo che il mercato potenziale arrivi a includere 20 nazioni».

Impossibile dire quanto pagheranno i contribuenti per completare lo sviluppo dell’arma: le stime oscillano da uno a quattro miliardi di euro. Il paradosso è che le aziende italiane coinvolte nel Meads stanno già costruendo un altro missile, con prestazioni simili, ma questa volta realizzato in un consorzio europeo senza americani. Si chiama Samp-T, è costato circa due miliardi ed è già entrato in servizio con l’Esercito. In un paese senza soldi neppure per la cassa integrazione, siamo sicuri che ci sia proprio bisogno di missili in duplice copia?


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