Quella foto con George W. e il mito infranto di Obama

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NEW YORK — Raramente l’incontro tra due presidenti americani di diversa matrice politica ha avuto una valenza più simbolica e un’attualità più paradossale. Quello avvenuto ieri in Tanzania, 13 mila chilometri da Washington, tra Barack Obama e George W. Bush, è già stato ribattezzato «una strana collisione politica».

Dove più dell’occasione, una cerimonia per ricordare le 11 vittime dell’attentato terroristico di 15 anni fa contro l’Ambasciata degli Stati Uniti, a risaltare è stato l’inedito groviglio di significati e di percezioni politiche contrastanti, prodotto dalla vicinanza tra due leader che nell’immaginario pubblico hanno rappresentato due, vere o presunte, diverse visioni del mondo nel secolo inaugurato l’11 settembre 2001.

Certo, la foto sotto gli alberi di Dar Es Salam rende più ragione al predecessore repubblicano, di quanto non faccia al presidente in carica. Soprattutto nel merito della politica africana, riassumendo il tema ricorrente del (tardivo) viaggio di Barack Obama nel «suo» continente: quello di costruire una legacy , un lascito che non impallidisca rispetto a quello di George W., di sicuro il presidente che ha fin qui dedicato più sforzi e attenzione all’Africa, impegnando con successo miliardi di dollari nella lotta all’Aids. Obama stesso ieri gli ha apertamente riconosciuto il merito di aver salvato milioni di vite.

Ma come in Blow-Up di Michelangelo Antonioni, il fotogramma della Tanzania tradisce qualcosa di non immediatamente visibile a occhio nudo. Colta nel momento in cui dall’Europa sale un grido di indignazione, in gran parte ipocrita, verso gli Stati Uniti, accusati di giocare sporco nel grande Risiko dello spionaggio; fissata mentre il culto globale di Obama appare incrinato di fronte al pragmatismo senza falsi pudori del Presidente, l’immagine ricorda non tanto che Barack Obama e George W. Bush siano la stessa cosa, come alcuni sostengono, quanto che esiste una continuità imprescindibile in ogni leadership americana. Perché una nazione, ricordava ieri il Financial Times citando le parole di Lord Palmerston, non ha alleati eterni, ma interessi eterni.

Agli occhi del mondo progressista, che su di lui aveva proiettato desideri e aspettative palingenetiche, scambiandole per la realtà, Obama appare adesso come l’uomo che ha avallato l’ambizione da Grande Fratello della National Security Agency; il presidente che non ha saputo o voluto chiudere la prigione di Guantanamo; il leader che ha fatto massiccio ricorso all’uso dei micidiali droni per uccidere i terroristi e i sospetti terroristi islamici in Pakistan, Yemen e Somalia. Perfino in Africa, dove l’elezione del primo presidente americano nero, «un padre dal Kenya, una madre dal Kansas», aveva alimentato speranze e attese, Obama ha trovato folle pronte a contestarlo. «Ha fatto campagna come Jimmy Carter, ma governa come Henry Kissinger», ha detto uno studioso turco a Gideon Rachman, editorialista del Financial Times . Mentre anche negli Usa opinionisti liberal come Maureen Dowd, del New York Times , ribattezzano Obama come un clone di George W.

È una narrativa quantomeno esagerata. Non c’è dubbio che nella lotta al terrorismo Obama abbia fatto ricorso, a volte con convinzione altre con riluttanza, a strumenti e politiche ereditate dal suo predecessore. E che l’impiego dei droni sia stato intensificato, anche come conseguenza del doppio disimpegno militare dal terreno in Iraq e Afghanistan. Ma allo stesso tempo Obama ha chiuso per sempre il sistema delle rendition e posto fine all’uso della tortura, a cominciare dal waterboarding , negli interrogatori dei sospetti terroristi. Né ha mai rinunciato all’idea, rilanciata di recente, che «come tutte le guerre, anche quella contro il terrorismo islamico dovrà avere una fine». Senza però mettere mai a rischio, neppure per un momento, la sicurezza nazionale. Del resto, a chi lo accusa di aver tradito le promesse, occorrerebbe ricordare che perfino al momento di ricevere il Nobel per la Pace, Obama non rinunciò a pronunciare uno straordinario discorso, che tutto era fuorché una professione di pacifismo.

Pochi presidenti americani come Obama hanno ereditato, con una quantità mai vista di situazioni pregresse, un mondo in rapidissima accelerazione verso una complessità sempre più difficile, dove ogni paradigma conosciuto — fosse geo-strategico, economico o tecnologico — si sta rivelando insufficiente e inadeguato. E chi oggi, governi o pubbliche opinioni del mondo, urla allo scandalo, o non lo ha capito, ovvero non ha onestà intellettuale.

Paolo Valentino


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