Cavaliere, il giorno dell’ira

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ROMA — La tensione è sempre più alta, e la fine del governo sembra a un passo. Stretto tra la pressione dei falchi che lo spingono a rompere gli indugi, e delle colombe che gli fanno intravvedere uno spiraglio, una via possibile per limitare i danni della sentenza Mediaset che comunque non potrà non avere conseguenze sulla sua vita personale e politica, Silvio Berlusconi è un fiume in piena. E ieri sera, quando ad Arcore ha ricevuto, in compagnia dei figli, Angelino Alfano per capire da lui, in un delicatissimo faccia a faccia, quali margini reali esistano per ottenere quel «riconoscimento» delle sue ragioni, del suo status di perseguitato, delle sue ragioni che vede talmente evidenti da non poter credere che non gli siano riconosciute, il clima era da allarme rosso.
Raccontano che fin dal mattino il Cavaliere fosse d’umore pessimo. Convinto, dalla lettura dei giornali, che nessuno spiraglio si stesse aprendo — né per volere del Pd né del Quirinale — per garantirgli intanto un voto contrario alla decadenza in giunta per le Elezioni, e poi un provvedimento di grazia, di commutazione della pena, un gesto che possa riabilitarlo agli occhi del mondo e non costringerlo a lasciare la politica dalla porta di servizio. Ma le parole del dalemiano Latorre favorevole al sì alla decadenza, poi durante la giornata quelle del ministro Delrio, assieme alla convinzione che gli hanno comunicato per tutta la giornata i più falchi tra i suoi fedelissimi che «Enrico Letta sta forzando perché sa già che, se cade il governo, o Napolitano gli ridà l’incarico o comunque sarà lui a guidare il Pd al voto, per questo non ci concederà niente», lo hanno fatto sbottare.
Dicono che, a sentirlo ieri, la strada da imboccare sarebbe solo una: forzare per arrivare al voto subito. Perché come da giorni gli sta dicendo la Santanchè «dai nostri contatti con i grillini sappiamo che anche loro vogliono andare al voto», perché «è ancora possibile, se si vota subito, che tu presidente possa candidarti in prima persona». Perché insomma non ci sarebbe più niente da perdere, o si ottiene qualcosa di concreto subito (e qualcuno, come Verdini, ancora riterrebbe possibile «convincere» qualche esponente della giunta per le Elezioni a votare contro la decadenza), oppure se si devono fare «pasticci» per strappare solo qualche settimana in più di tempo, allora «è inutile impantanarci». E perché, numeri mai indifferenti per il Cavaliere, sondaggi concordi darebbero in chiaro vantaggio (da 1,5 a 5 punti) il Pdl sul Pd, con vittoria netta se si andasse alle urne con il Porcellum.
Insomma, Berlusconi ieri è tornato a valutare anche l’ipotesi estrema: le dimissioni di massa dei suoi deputati, se Napolitano insistesse a non voler sciogliere le Camere. Perché appunto il voto sarebbe l’extrema ratio per provare a resistere, quando tutto venga a mancare, nonostante le immense difficoltà che ci sarebbero per ottenerlo, per gestirlo, per vincerlo.
Ed è proprio su queste difficoltà che l’ala morbida, capeggiata da Alfano, sta tentando in queste ore di spiegargli, per farlo arrivare al vertice previsto per domani ad Arcore senza decisioni drammatiche già prese. È proprio su questi tasti, sulla necessità di estrema cautela che ha battuto ieri sera Angelino Alfano: «Le elezioni non sono affatto scontate, tutt’altro. Napolitano farà di tutto per non concederle, visto che è quello che ha sempre detto», ha insistito il segretario, spiegando quello che per tutto il giorno hanno ripetuto le colombe del partito: per andare al voto subito bisognerebbe sciogliere le Camere entro la fine di settembre, tempi quasi impossibili. E comunque, sono convinti i moderati del Pdl, il capo dello Stato potrebbe perfino dimettersi per impedire che si vada al voto con una legge elettorale che potrebbe ricreare una situazione balcanica quale quella delle scorse elezioni. E nel frattempo Berlusconi, che dal 15 ottobre potrebbe essere ai domiciliari, cosa farebbe?
Ma non solo: se anche si riuscisse miracolosamente ad andare al voto, ha continuato a spiegargli Alfano, facendo saltare l’Imu, portando di fatto con la caduta del governo all’aumento dell’Iva «noi cosa diremmo ai nostri elettori? quale sarebbe la nostra campagna elettorale? Solo un referendum sulla giustizia, in tempi di crisi e disoccupazione?». Insomma, il dubbio insinuato non è di poco conto, mentre l’alternativa sarebbe ardua ma percorribile: insistere con il Pd per avere tempo in giunta, e su Napolitano perché a quel punto, anche se fosse già arrivata la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, possa concedere un atto di perdono, grazia o commutazione della pena.
Chiaro, l’agibilità politica per il Cavaliere non sarebbe mai più quella di prima, ma il clima, gli consigliano le colombe, cambierebbe. E lui potrebbe rimanere leader morale del centrodestra.
Peccato però che Berlusconi ad oggi non veda garanzie. Ci creda poco. Sia in un travaglio che nessuno ancora sa dire a cosa porterà. Perché se con la pancia ha deciso, con la testa sta ancora ragionando. In un quadro che si fa di ora in ora più drammatico.
Paola Di Caro


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