Il mare dei russi. Anche poveri

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Quante care memorie in più di mezzo secolo, a Forte dei Marmi. Non si prevedeva certamente, negli anni Cinquanta, che sarebbe diventato mitico o leggendario quel «quarto platano» al Caffè Roma dove ogni sera si ritrovavano all’ora dell’aperitivo i villeggianti Roberto Longhi e Anna Banti, i coniugi Bianchi e i coniugi Bertolucci, due «baschetti» fissi (Enrico Pea e Carlo Carrà), il docente fiorentino Giuseppe de Robertis, e vari parmigiani più o meno illustri di passaggio. Ma erano villeggiature operosissime: ricordo naturalmente piena di libri la casetta dei Longhi al Cinquale. E interi numeri di «Paragone» venivano discussi al Caffè Roma, con articoli di Bassani e Testori e Pasolini e Gadda e Zolla e Garboli che passavano di mano in mano.
Quando vi si girò una scena della Bella di Lodi, cortesemente avvertiti non vennero. E fu un peccato, perché poteva diventare un fondale «decontratto» di illustri Amici al Caffè. (Come si fece con Antonio Delfini a Modena).
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Forte dei Marmi attualmente è piena di russi. Spesso ricchi o ricchissimi: comprano vaste proprietà, badano solo ai lussi più costosi; e ogni menu di ristorante o avviso di agenzia è anche bilingue, in caratteri cirillici. Niente cinesi o giapponesi, invece. E addirittura ecco famigliole russe col paparino che sfoggia una maglietta con la scritta «Capitals» (che cosa vorranno dire?). E girano guardamacchine e mendicanti e accattoni russi, che ti intimano «capo!» e chiedono aggressivamente la carità nella loro lingua.
Sembra dunque appartenere a tutt’altre epoche storiche e di costume il resoconto di Serena Vitale, pedinata e investita da un’auto del Kgb nell’inverno 1978, a Mosca, mentre accompagnava la vecchia moglie di Viktor Šklovskij a prendersi un cappotto in un negozio «Beryozka» per stranieri. Recensione di Zinovy Zinik su un Tls di fine luglio, giacché ne esce a Londra la traduzione inglese.
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Ero evidentemente molto ingenuo, nell’autunno 1965, quando vidi in un elenco di convegnisti che Viktor Šklovskij era a Roma, al Plaza. Non ancora famoso per la formula de «l’Arte come Congegno», né già popolarissimo per quello «straniamento» alla base di ogni Formalismo Russo. Nemmeno a colazione, in Piazza Navona, nutrivo sospetti sul fatto che accettasse di conversare soltanto in russo, con un giovane interprete evidentemente spia del Kgb, malgrado le trascorse analisi finissime su Sterne e Joyce e Flaubert e Proust.
Basso e tozzo, gran cranio lustro. «Realismo? Mai usato quel ridicolo termine! Eppure a settantatré anni sto benissimo! E lavoro moltissimo!». Ma non gli pubblicano un articolo su Otto e mezzo. «Eppure ci sarebbe dentro tutto: Garibaldi e il sogno e l’amore e l’Italia e le nostre stelle e noi che scriviamo la teoria della letteratura!». «E Dante sapeva già tutto! La Divina Commedia riassume la storia passata nella struttura del giornale futuro — il Giornale dell’Inferno! Mentre nel Paradiso appende tante icone a una struttura di cupola fiorentina!».
Sembra una favola, anche a causa di quei tremila articoli «perduti». Conosceva Stanislavskij. «Grand’uomo, però come quelle montagnole dove si accumula tanta terra. Accumula, accumula, non emergono più. E negli ultimi tempi, ascoltava le prove in teatro al telefono; e mormorava: “Tutto sbagliato! Che brutto”». E Ejzenstein? «Gli telefonai a Capodanno: Sergej Michajlovic, ho un regalo per te, ho scoperto che sei un genio! E lui: grazie Viktor Borisovic, stavo appunto per suicidarmi, ma rimanderò!». E il massimo antirealista, Tolstoj: «La prima volta che è andato in treno, è sceso gridando che la ferrovia sta al viaggio come il bordello all’amore!». Ma riecco La dolce vita: «Protagonista del film è la Paura, che anestetizza la sensibilità come quegli ubriachi che si feriscono e non sentono dolore».
Ma scusi, Lei già trattava nel ’17 di «sterzata semantica per rendere estraneo l’abituale» mentre Brecht comincia a parlare di «alienazione» e «straniamento» solo dopo un viaggio a Mosca parecchi anni dopo… «Non m’interessa più quel commediografo. Il vero autore formalistico, e anche strutturalistico, per me rimane Fellini».
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Ancora sul Tls, l’illustre ottantaquattrenne George Steiner spiega che nell’Italia di oggi si viene spesso invitati a «conversazioni», che sono poi seminari o conferenze di tipo filosofico e accademico. Non accenna a «convegni» o «festival» indubbiamente più diffusi, soprattutto in questa stagione calda. Chiarisce che trattasi di una «interazione sociale diretta» e non già di un genere letterario specifico tipo il «dialogo filosofico». Ma benché la discussione sia spesso laboriosa e ripetitiva, può fornire utili punti di partenza: incontri fittizi e intricati ibridi ove si rimescolano interlocutori inventati, o accertati storicamente. Presentati direttamente, o «embedded» in narrazioni storiche.
Dante in versi e Galileo in prosa, le «scintillanti Soirées» di de Maistre, la «speciale grazia» nell’urbanità di Cicerone e la sua «coltivata convivialità», Oscar Wilde e Sant’Agostino e Lorenzo Valla e Iris Murdoch, le tassonomie e l’ermeneutica nel dialogo filosofico… E in ogni dubbio produttivo. Allora qui si vorrebbe rammentare la gran delizia di queste conversazioni a tutto campo — davvero «a 360 gradi» — dell’illustre George Steiner in trattoria. Sia pure escludendo le «pratiche rustiche» di Varrone. Nonché il Cortegiano del Castiglione, benché abbia a che fare coi nostri principii di azioni e conoscenza. Senza tuttavia prendere una sua posizione, però.
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«Uhu, uhu, questa è pace che pace non ha… uhu, uhu, la tormenta, tormenta e va… uhu, uhu… In mezzo a tanta neve, che imbianca i monti e il cielo, piccolo cuor di gelo… La nebbia portata dal vento, discende dal ciel sonnolento… Vento, vento, portami via con te!»…
A questo punto, si levavano le proteste della sala da pranzo. «Sempre lì in cucina con le serve, cresceranno con una mentalità da serve». In effetti, in cucina, con le cameriere, si cercava di imitare la radio nei tempi di guerra, con l’oscuramento.


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