IL SUONO DEI CANNONI DIVENTA ECO

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FALZAREGO. Appena oltre il Passo di Monte Croce di Comelico, la ferrigna Croda dei Toni chiusa in una morsa di nembi svela l’arcano del suo nome. “Tuoni”, evidente. Tuoni che fan rima con cannoni e crepitano nell’anfiteatro della Fiscalina, regina dei fulmini. La guerra in montagna cambia acustica, diventa eco. Bomborombon fa il cannone, ta-pum il colpo del cecchino.
Cambia anche il fronte. Ora i “crucchi” stanno a Occidente, e fa impressione vedere il sole scendere dalla loro parte. Tutto s’è invertito rispetto all’Isonzo. La mappa parla chiaro: la prima linea s’è staccata dalla frontiera politica con l’Austria per incollarsi al perimetro amministrativo del Trentino-Alto Adige e disegnare un cuneo tra Veneto e Lombardia, verso la Pianura padana, a Sud.
Non per questo il confine è meno netto. Anzi. In Tirolo la cura meticolosa dei prati, i fiori alle finestre, la pulizia delle strade, tutto è dichiarazione di diversità. Esci da un mondo dove le regole sono fatte per essere aggirate per entrare in un pianeta dove tutto è regolamentato e lo strappo alla regola diventa, un po’ noiosamente, inconcepibile. Dio solo sa come a Roma potessero pensare che queste fossero terre italiane ansiose di liberazione.
Si entra anche in un mondo immobile, così incollato al proprio stereotipo e così intento a lucidare se stesso, da rendere impossibile la nostalgia. È paradossale: se a Padola i bellunesi parlano del pusterese Sepp Innerkofler come di un mito, in Tirolo l’eroe che guidò gli austriaci sulle crode più pazzesche diventa piuttosto icona, insegna d’albergo o pasticceria.
Eh sì, il Tirolo non è Italia. Ma non è nemmeno la cara vecchia Austria. Quella era arcipelago di nazioni. Era il Kaiser che si rivolgeva ai “suoi popoli” al plurale. Era cartoline dal fronte stampate in dieci lingue. Era ruteni, cechi, dalmati e ungheresi inquadrati negli stessi reggimenti, con cucine da campo separate per ebrei, cristiani e musulmani. Il Tirolo è lontano come la Luna da tutto questo lontano dai Carpazi, dalla Transilvania e anche dalla mia Trieste. Lontano dalla sua stessa capitale.
“Vedi figliolo — dice un adagio locale — oltre quei monti c’è Vienna e la Cina”. È vero: qui è solo Holzer, Appacher, Trenker, Kiniger, mentre nell’idillico cimitero militare asburgico di Monte Piana (Nasswand) sulla strada di Cortina, hai polacchi, rumeni e slovacchi insieme a prigionieri russi e serbi inumati in modo altrettanto degno. Tombe perfette sul bordo del fiume mormorante. Tanto di cappello alla fondazione Fuchs che cura questo presidio della memoria.
Il cielo si riapre sul Cristallo, svela canaloni di neve con tracce di sci. Il fuoristrada del Generale zigzaga sul filo del fronte, emerge in vista dell’Antelao e delle Tofane, attacca il Falzarego in un sole sfolgorante, destinazione rifugio Col Gallina. Ci aspetta un veneto che potrebbe essere nostro figlio: Luca Turchetto, 33 anni, nipote di una penna nera del ’15-18 e appassionato rievocatore della guerra bianca. Eccolo, ci viene incontro con la faccia bruna e il pizzo da satanasso in mezzo a un attendamento di Alpini pronti alle esercitazioni sulle rocce del Lagazuoi. Ci porta nel suo regno segreto, la “Edelweiss Stellung” — postazione Stella Alpina — in una
conca protetta dal Sass d’la Stria, all’imbocco della Valparola. Un villaggio militare annidato fra i massi, nel regno incantato delle marmotte.
C’è anche la guida Franz Pozzi- Brunner, 56 anni e divisa da Alpeniäger, sudtirolese di Trafoi. È il primo che ha adottato questo posto, quattro anni fa, dopo un inverno di grandi nevicate. Con l’aiuto di Luca ha restaurato alcune baracche, e ora nei vecchi ripari tutto è di nuovo come allora. Le cuccette, la stufa, le cartoline per la morosa, la lanterna a petrolio, il ritratto dell’imperatore. Persino l’odore. «Questo è un luogo di pace, qui fa bene vivere e dormire», racconta Franz. Sa che ci sono posti dove non tornerebbe mai: come il terribile Col di Lana lì a due passi, il colle con un cratere al posto della cima, dove si respira sempre la morte.
«Tutto è cominciato qualche anno fa, quando ho rischiato di morire sul lavoro e ho deciso di cambiar vita» racconta Turchetto mostrando una cicatrice a un centimetro dalla giugulare. «Sono venuto qui, ed è stato come superare un confine. Oltre, tutto riacquistava senso. Lavarsi al torrente, scrivere al lume di candela, sentire i rumori della notte. Ho visto arcobaleni di notte, sentito il crepitio della stufa e il peso della neve sul tetto. Quanti libri ho capito raggomitolato sotto queste coperte di lana! Sai, quando senti i piedi che gelano, cambi opinione su molte cose. E poi tutto ritorna: i racconti del nonno, le lacrime versate, le donne non avute… E torna, lo dico con la pelle d’oca, la presenza di quelli che hanno vissuto qui un secolo fa».
“In guerra ho passato alcune delle ore migliori della mia vita, di quelle che mi hanno dato oblìo e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo, anche se la terra trema, si chiama felicità”. Così Carlo Emilio Gadda.
«Noi siamo i cantori, i bardi, ma anche i difensori di questo luogo. E impediremo che sia invaso dallo strepito del mondo». Il tirolese è diventato improvvisamente serio. Dice “noi”, e mette i brividi quel pronome che stringe i nipoti di due nemici. È così che si fa l’Europa, nei luoghi dove fu lacerata. «La Edelweiss è la nostra piccola patria e la difenderemo: qui non sentirete mai il bip delle seggiovie». Intuisco l’incombere di qualcosa di innominabile, qualcosa nascosto dietro quella strana pace dei contemporanei che sa essere peggio della guerra. In battaglia, almeno, sai chi sono i nemici e la distruzione non si traveste di parole come “sviluppo”. Per questo stare trincea, oggi, è forse più difficile di ieri.
Mentre parliamo davanti alla capanna, mi accorgo che una marmotta, a cinque metri, ci osserva tranquilla da un masso. Ci riconosce come amici e si fida. Anche lei, come le anime dei ragazzi sepolti quassù.
(16 – continua)


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