LE TRINCEE DEI RIBELLI VOTATI AL MARTIRIO

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NEL tragitto tra le due isole ribelli, almeno una decina di chilometri, mi stupisco di trovare le strade deserte. Il Cairo si è svuotato. Poche automobili, qualche passante. Agli incroci, in prossimità dei luoghi del dramma, davanti ai mezzi blindati dell’esercito, ci sono sparuti gruppi di giovani incerti. Amici o nemici degli assediati? Scopro cosi che milioni di egiziani si sono chiusi in casa. Certo, la paura. La contabilità dei morti vomitata dalle radio è impazzita: cinquanta, cento, seicento, duemila…Ci vorranno ore per avere un bilancio approssimativo e credibile: alcune centinaia, meno dei duemila annunciati dai Fratelli musulmani e più dei centocinquanta annunciati dalla polizia. E più di mille feriti.
Ma più che spaventata, l’imponente, superba città sul Nilo mi sembra contrita. Pentita. Il dramma dei Fratelli musulmani che si consuma nelle due isole ribelli, Nadah e Rabaa, è la conseguenza della grande illusione accesa dalla loro irruzione sulla ribalta della rivoluzione e poi del potere attraverso i liberi voti degli egiziani. E adesso gli elettori delusi, frustrati, dal rapido fallimento, non scendono nelle strade, per soccorrere o infierire contro i ribelli. Chiudono porte e finestre, per non vedere la fine dei loro eroi di ieri, rappresentati da alcune mighib, di uomini e donne, venuti dai sobborghi o dal paese rurale. Affascinati dall’idea del martirio. I cairoti vivono il massacro appunto come una doppia espiazione. Quella dei Fratelli musulmani per i loro errori, e quella degli egiziani che li hanno votati per le loro illusioni.
Il mio compagno egiziano del momento dice impietoso che i Fratelli musulmani «sono affogati nel fanatismo ». Una spiegazione più realistica è che l’Egitto “laico”, nel senso approssimativo dell’espressione in una società araba, ha reagito e reagisce, con l’esercito quasi onnipotente in prima linea. L’Egitto laico ha anche un’anima liberale, in queste ore dilaniata dal sospetto che dopo la minaccia della sharia, prevalgano gli stivali dei generali, come vuole la tradizione. Le immediate dimissioni, in segno di protesta per la repressione e per lo stato di emergenza che limita le libertà democratiche, del vice presidente Mohammed El Baradei, il diplomatico premio Nobel per la pace, sono la prova che l’impronta liberale del governo provvisorio sbiadisce o sparisce del tutto, e che prevale quella militare.
Dal dramma del quattordici agosto è spuntato un nuovo Nasser. Si parla da tempo della reincarnazione del capo della rivolta militare che nel ‘52 cacciò re Faruk e proclamò la repubblica. Il generale Abdul-Fattah al-Sisi (59 nove anni, con soggiorni militari in Arabia Saudita e negli Stati Uniti) sarebbe una nuova edizione di quel famoso rais nazionalista, morto di crepacuore più di quarant’anni fa. L’islamista Mohammed Morsi, un ingegnere baciapile, sarebbe stata una parentesi: Sisi appare come il successore di Nagliaia di Nasser, di Sadat, di Mubarak, tutti generali o colonnelli. La primavera araba, versione egiziana, ha finito col creare una nuovo leader in uniforme? Capita che le rivoluzioni conoscano svolte “bonapartiste”. L’Egitto, storica società militare fin dall’epoca ottomana, è un terreno favorevole. Il generale Sisi è un musulmano devoto, le donne della sua famiglia portano il foulard islamico. Ma è un militare che non tollera l’inefficienza e la concorrenza di una organizzazione che assomiglia a una setta. È lui che ha rafforzato Mohammed Morsi eletto presidente della repubblica, ed è sempre lui che l’ha destituito quando è apparsa evidente la sua incapacità di governare. Il generale Sisi è un personaggio complesso. Quando in piazza Tahrir, vecchia ribalta della rivoluzione, fu controllata la verginità delle donne che la frequentavano, fu lui a spiegare come l’iniziativa volesse garantire l’innocenza dei militari accusati di violenze carnali. Non sarà tanto imprudente da occupare nell’immediato la presidenza della Repubblica (le elezioni sono previste per l’anno prossimo), ma non avrà bisogno di quella carica per esercitare il vero potere. Lo ha già.
Capo del supremo consiglio delle forze armate, vice presidente del consiglio e ministro della difesa, il generale Sisi ha deciso di usare il pugno di ferro. E lo ha sferrato quando tutti si aspettavano che adottasse una tattica meno brutale, per non scandalizzare le capitali occidentali e i liberali del governo provvisorio, come El Baradei, che consigliavano prudenza e tempi lunghi, al fine di evitare un massacro. Il generale se ne è infischiato degli inevitabili richiami al rispetto dei diritti dell’uomo e dell’altrettanto inevitabile critica delle autorità religiose di al-Azhar, le più ascoltate del mondo sunnita, che pur approvarono la destituzione di Mohammed Morsi. Ha ordinato lo sgombero immediato dei due accampamenti e poi ha imposto il coprifuoco al Cairo e in altre città (dalle sette di sera alle sei del mattino). Ha dichiarato inoltre lo stato d’emergenza, che aumenta il potere dei militari e dei loro tribunali. Il giorno prima aveva nominato dei generali governatori di diciannove province. Convinto di essere approvato dalla maggioranza degli egiziani, ormai ostile ai Fratelli musulmani, e comunque infastidita dalle loro plateali proteste che impedivano la ripresa della vita economica, il generale Sisi ha colto tutti di sorpresa. Erano all’incirca le sette quando la polizia ha fatto irruzione nell’accampamento di piazza Nahda, vicino all’Università del Cairo, e a due passi dal Nilo.
Ed è accaduto quel che ci si aspettava. Anziani, donne e figli hanno ubbidito all’ordine di evacuazione impartito dalla polizia e hanno abbandonato la piazza. Subito dopo, secondo la polizia, dei cecchini appostati nelle case vicine hanno cominciato a sparare e sono volate bombe molotov. La risposta è stata immediata: gas lacrimogeni, avanzata dei bulldozer per demolire le barricate e spari, raffiche vere, come provano i feriti curati nell’ospedale da campo. E i cadaveri (in un primo tempo quarantacinque) contati dai giornalisti. Quest’ultimi, testimoni sgraditi e quindi spesso aggrediti, e trattenuti, non hanno avuto la vita facile. L’esercito ha lasciato fare alla polizia, non è intervenuto direttamente all’interno dei campi trincerati, ma li ha circondati con mezzi blindati per isolarli. Molti Fratelli musulmani sono riusciti a sfuggire all’accerchiamento e si sono dispersi nella città, dove fino a tarda sera hanno acceso scontri con la polizia. Hanno anche organizzato un centro di resistenza in una moschea periferica, da dove si sono alzate colonne di fumo. Al tramonto c’erano ancora scontri a Nasr City, sulla piazza Rabaa al-Adawija, attorno alla moschea con lo stesso nome.
Alla fine della giornata, il cronista conserva alcune immagini: i poliziotti che sparano ai lanciatori di pietre annidati su un tetto; i giovani feriti al torace e al collo portati a braccio in un ospedale da campo; l’ufficiale in fin di vita; i Fratelli musulmani arrestati, in ginocchio e con le mani alla nuca; le fastidiose nuvole bianche del gas lacrimogeno e quelle scure, nere dei pneumatici bruciati in mezzo alla strada. Da questa giornata di sangue l’Egitto è più diviso che mai. La spaccatura tra laici e religiosi è profonda ma zigzagante. I liberali come Baradei si dissociano dai militari che hanno scelto la repressione. E al tempo stesso i salafiti di Al Nour, il partito islamico estremista, non ha dimostrato solidarietà ai Fratelli musulmani. Al tempo stesso si
sono moltiplicate le aggressioni alla chiese cristiane copte nell’Alto Egitto. Mentre nel Sinai gruppi, che si ritiene siano affiliati o si ispirino ad Al Qaeda, aggrediscono i militari. Il generale Sisi ha come obiettivo, stando al mio occasionale e già citato compagno egiziano, di mettere fine alla “ sanguinosa ricreazione” provocata dalla primavera araba. Per questo lui, come non pochi altri egiziani, ama il “nuovo Nasser” apparso sulle sponde del Nilo.


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