L’Italia stretta tra due fuochi prova a sondare la «terza via»

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SAN PIETROBURGO — Con Putin che prova ad arruolarlo tra gli «amici» e Obama che accoglie con soddisfazione la firma italiana in calce al documento che condanna Assad, Enrico Letta si trova pericolosamente tra due fuochi. E non nasconde la «profonda delusione» di chi non può far molto per spegnere l’incendio. «Sulla Siria c’è una divisione dolorosa — ammette al termine dei lavori del G20 —. Continueremo a lavorare perché rientri, cercando soluzioni che prediligano una via politica».
Fra Russia e Stati Uniti la glaciazione è iniziata e Letta, che al mattino — nei cinque minuti di faccia a faccia con Obama — vedeva ancora margini, a metà giornata commenta il fallimento di una trattativa «dura e tesa», in cui ha cercato di ritagliarsi un ruolo tra i protagonisti: «La discussione sulle sanzioni è stata molto complicata e ha visto divisioni anche tra i Paesi europei…». Non è una dichiarazione di resa, lui continuerà a battersi «con molta forza per tenere Europa e Usa sulla stessa barca e non allargare l’Atlantico». E quando confessa la «fatica» dei suoi sforzi diplomatici nella scintillante residenza estiva degli zar, si capisce quanto le due sponde siano già lontane.
L’Europa è divisa in tre blocchi. Hollande è al fianco di Obama, Cameron è stato fermato dal Parlamento britannico (ma ha firmato la dichiarazione congiunta contro Assad), la Merkel invece ha strappato, sfilandosi all’ultimo dal documento che condanna Damasco. E così a Letta tocca ancorare la barca italiana alla scialuppa spagnola: «Con Rajoy c’è forte sintonia e condivisione, non parteciperemo a iniziative che non abbiano l’Onu come interlocutore». Un asse su cui il premier punta per creare una posizione intermedia tra i sostenitori dei raid e i contrari «senza se e senza ma».
Già impegnato a resistere alle correnti che rischiano di travolgere la sua maggioranza, Letta non può permettersi di restare in mezzo ai flutti sul piano internazionale. Per questo cerca la formula magica che tenga assieme la ferma condanna delle armi chimiche e il no, forte e chiaro, a far parte di quella «ampia alleanza» evocata da Hollande per punire militarmente Assad.
L’altra sera a cena ha citato la lettera del Papa, ha provato a sensibilizzare Putin e messo in guardia la comunità internazionale: «Siamo tutti sul filo del rasoio, aver gasato bambini e civili è un crimine che non può restare impunito».
A Obama, Letta chiede tempo perché la diplomazia scongiuri l’uso delle armi. Ma l’inquilino della Casa Bianca non ha aperto spiragli e al premier non resta che spiegargli perché — visto il nostro impegno in Afghanistan, Libano e Libia — non possa concedere altro che «comprensione», «vicinanza» e «sostegno politico».
Per certificare come il «rapporto straordinario» con gli Usa non può essere rotto compie ogni possibile sforzo dialettico: «Sono un Paese amico, il legame transatlantico è un pilastro della nostra politica estera…». E insiste con l’appellarsi ora all’Europa e ora agli Usa, perché comprendano che imboccare strade diverse non si deve: «È già successo dieci anni fa e sono stati disastri». Mai più un altro Iraq, ma l’espressione grave di Letta dice che può accadere ancora.
La buona notizia, per quanto solo una goccia nel mare insanguinato di un conflitto che ha già fatto centomila morti, è l’impegno per i due milioni di rifugiati siriani: 50 milioni di dollari che il governo ha stanziato per i profughi. Un passo avanti molto apprezzato dall’Oxfam Italia.
Deluso per il mancato accordo sulla Siria, Letta torna a Roma soddisfatto per le intese sul piano economico, pur oscurate dalle nubi siriane. Ma ora, finito il G20, la questione Berlusconi tornerà a tormentarlo. Possibile che nessun leader gli abbia chiesto conto delle fibrillazioni interne? «Nessuno», assicura. E, deciso a schivare un tema che lo disturba, dice che la comunità internazionale ha bisogno di una Italia «stabile da tutti i punti di vista» e non di una Italia che si ostina a «guardarsi l’ombelico».
Monica Guerzoni


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