In diciotto righe l’ira del presidente E resta il «no» alle urne anticipate

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Sarebbe infatti stata necessaria una virtù sovrumana per restarsene impassibile e in silenzio davanti ai resoconti dell’assemblea del Pdl e attendere di «verificarne con maggiore esattezza le conclusioni», come si era ripromesso mercoledì sera, quando le «voci di dentro» del centrodestra erano una babele indistinta e non sembravano ancora materializzare un’ipotesi politica prossima a concretizzarsi. Insomma: ce n’era già abbastanza per dire che quanto era scaturito dal discorso di Silvio Berlusconi e di altri leader era «istituzionalmente inquietante» e per intervenire subito. Con una dichiarazione durissima e, dal punto di vista di chi deve concentrarsi sulla stessa tenuta democratica, intransigente. Anche perché l’ultimatum lanciato nel nome del Cavaliere rappresenta, oltre a un vero e proprio annuncio di precrisi, una sfida rivolta ormai pure allo stesso Quirinale. Da respingere.
Così, Giorgio Napolitano ha disertato un convegno su De Gasperi dov’era prevista la sua presenza, si è seduto alla scrivania e ha sintetizzato in 18 righe i pericoli che possono produrre le minacciate dimissioni di massa dei parlamentari berlusconiani. Ma ha soprattutto deciso di mettere con le spalle al muro chi, con una strategia ad altissimo rischio, minaccia di travolgere i sempre più fragili equilibri delle larghe intese, a costo di «far decadere» l’intero Paese in una fase estremamente delicata. Segnalando alcuni punti fermi — a uso di quella stessa parte politica e dell’opinione pubblica — e spiegando che un’idea simile «configurerebbe l’intento, o produrrebbe l’effetto, di colpire alla radice la funzionalità delle Camere». Prospettiva «inquietante» (perché inciderebbe su un organo costituzionale) al pari del collegabile ed esplicito proposito di esercitare in tal modo «un’estrema pressione sul capo dello Stato», per spingerlo a chiudere in anticipo la legislatura e mandare gli italiani al voto.
Non basta. All’avventurismo della secessione parlamentare si aggiunge, e il presidente la indica come aspramente censurabile per «gravità e assurdità», l’evocazione di un «colpo di Stato» o di un’«operazione eversiva» in corso contro il capo del Pdl. Un’interpretazione devastante, un’impostura che ha denunciato da tempo e che ora ribadisce con il suo comunicato, in quanto — ripetuta fino all’ossessione — mira a erodere la fiducia dei cittadini nella giustizia, e non a caso ricorda che «l’applicazione di una sentenza di condanna definitiva… è un dato costitutivo di qualsiasi Stato di diritto in Europa».
Un dato costitutivo, insiste Napolitano, come «la non interferenza del capo dello Stato o del primo ministro in decisioni indipendenti dell’autorità giudiziaria». Passaggio, quest’ultimo, che sarebbe superfluo rammentare a qualsiasi matricola di giurisprudenza («ad impossibilia nemo tenetur», recita il brocardo concepito all’alba della civiltà giuridica romana) e che dimostra l’enorme fastidio che il presidente prova per la pretesa, alimentata dai falchi del centrodestra, di garantire a Berlusconi — terrorizzato di subire il carcere una volta che fosse senza lo scudo parlamentare — un salvacondotto permanente sulle futuribili iniziative della magistratura. Questa l’autentica aspirazione che si cela dietro la richiesta di assicurare all’ex premier l’«agibilità politica».
Ecco com’è maturato, e con quali scopi, l’aspro memorandum del Quirinale. Il presidente ne ha anticipato il senso a un Enrico Letta «umiliato», che ha raggiunto più volte al telefono a New York, in uno scambio d’opinioni carico d’ira e d’inquietudine. Contatti continui che oggi pomeriggio culmineranno con un incontro «di regia», a Roma. Con lo scopo di determinare insieme la strada per arrivare a un «chiarimento» urgente, probabilmente attraverso un voto di fiducia da calendarizzare prima della data spartiacque del 4 ottobre, in maniera di snidare pubblicamente (ossia in Aula) chi punta irresponsabilmente allo sfascio.
Di sciogliere le Camere non se ne parla, almeno finché ci sarà questa legge elettorale. E anche le ipotizzate dimissioni di Napolitano, per qualcuno già pronte in un cassetto, in realtà sono oggi «una follia», come dicono dal Colle: sarebbero l’arma da fine del mondo, un Armageddon istituzionale, una riedizione dell’8 settembre 1943, traducendosi in un’Italia senza un governo, senza un Parlamento e, appunto, senza un capo dello Stato. No, lui «non diserterà di un palmo dai suoi doveri finché sarà necessario», tagliano corto i suoi consiglieri. Tantomeno dopo certe «risposte» venute dopo il suo messaggio. Su tutte, sortite ingiuriose a parte, quelle dei capigruppo Brunetta e Schifani (ex presidente del Senato), che hanno dimostrato di non voler arretrare di un palmo, sia nei toni sia nei contenuti, rispetto a quanto uscito dall’assemblea del Pdl. Ciò che di fatto materializza, oltre allo spettro di una crisi al buio o quantomeno di un logoramento insostenibile per il governo, una frattura istituzionale.
A margine di tutto questo, una curiosità fatta emergere da qualche costituzionalista: posto che i deputati e i senatori del Pdl si dimettessero compattamente, il Parlamento potrebbe comunque funzionare galleggiando a quota 750. Certo, sarebbe un’enorme e clamorosissima anomalia. Ma, accademicamente parlando, risulterebbe possibile.
Marzio Breda


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