Navy Yard, la lunga scia di sangue

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Nel 2002, dieci persone vengono uccise in ottobre in una serie di attacchi condotti da due cecchini, John Muhammad e Lee Malvo, entrambi poi arrestati.
Muhammad viene condannato a morte mentre Malvo, minorenne all’epoca dei fatti, viene condannato all’ergastolo. Nel 2009, un sostenitore della supremazia della razza bianca, James Von Brunn, 88 anni, uccide una guardia al museo dell’Olocausto. Nel 2011, Oscar Ortega-Hernandez spara vari colpi contro la Casa Bianca, senza risultato. Questi sono solo i casi di uso delle armi da fuoco nella capitale americana, come se a Roma, nel giro di diciannove anni, ci fossero stati due attacchi al Quirinale, uno al museo ebraico, una strage di civili presi a caso e una di soldati dentro una base militare. In Italia, naturalmente, non è successo nulla di tutto questo, nonostante mafia e camorra, perché la vendita di armi è severamente controllata. Ma l’America è l’America e le lobby delle armi da fuoco, come la National Rifle Association, da noi non esistono.
Gli episodi di violenza si ripetono: nel 2012 è il caso prima del massacro in un cinema di Aurora, in Colorado, con 13 morti, e poi del caso di Newtown, nel Connecticut, dove un folle di origine italiana, Adam Lanza, uccide 27 persone, tra cui venti bambini, in una scuola elementare.
Gli Stati Uniti hanno la non-politica di controllo delle armi da fuoco che sappiamo: il loro possesso, garantito dal II emendamento della Costituzione, è stato dichiarato un diritto “individuale” dalla Corte Suprema in una sentenza che aveva le sue origini proprio in un tentativo di regolamentazione da parte della città di Washington. L’ultimo caso, quello di lunedì, sembra più simile agli omicidi che fra il 1986 e il 1997 fecero 40 morti in venti differenti episodi negli uffici postali o in altri luoghi di lavoro, facendo addirittura entrare nei dizionari l’espressione going postal come sinonimo di «impazzire e diventare violento».
Aaron Alexis, l’impiegato di una ditta che lavorava per la marina, ed ex marinaio, sembra sia stato l’unico killer e non sono finora venuti alla luce moventi politici come invece nel caso della sparatoria di Fort Hood del 2009, quando Nidal Malik Hasan, un maggiore dell’esercito americano uccise -coincidenza- 13 commilitoni, ferendone altri 30, per protestare contro la politica americana in Iraq e Afghanistan. Hasan è stato condannato a morte il 28 agosto scorso. Alexis aveva una storia di violenze «non gravi» come lo sparare attraverso il soffitto ai vicini di casa che facevano troppo rumore, episodio per il quale fu arrestato ma non processato. Nonostante una serie di mancanze disciplinari anche serie fu congedato onorevolmente dalla marina e aveva accesso al Navy Yard con il suo tesserino magnetico. Lunedì mattina è entrato nella base da solo (le prime notizie, che parlavano di due complici, sono state smentite dalla polizia) e ha iniziato a sparare contro i colleghi e i militari che affollavano la caffetteria. Solo dopo un violento scontro a fuoco è stato ucciso dalle forze di sicurezza.
Oggi, naturalmente, si parla di rafforzare i sistemi di sicurezza nella base, come se il problema fossero i controlli all’ingresso e non l’incapacità di avere una politica per impedire alle armi da fuoco di finire nelle mani di persone con problemi mentali. Da questo punto di vista, l’ostruzionismo dei repubblicani in Congresso è ovviamente una vergogna ma la mancanza di leadership di Barack Obama, la rassegnazione con cui l’amministrazione e il partito democratico hanno dato prova in questi anni è altrettanto sconvolgente. Ogni strage porta a veglie di protesta, commosse parole del presidente, vaghi tentativi di qualche deputato o senatore per introdurre limitazioni alla vendita di armi, dopo qualche settimana tutto finisce nel dimenticatoio. Con ogni probabilità, anche questa volta finirà così.


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