Tra i cristiani sul fronte di Damasco “Se l’America bombarda vince la jihad”

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DAMASCO — Al posto delle note gioiose della Marcia Nuziale, sono i colpi di cannone a risuonare sotto le arcate della Chiesa del Cristo, mentre May e Kinan, perfetti nei loro abiti da copertina, sfilano mano nella mano in mezzo alla folla di amici e parenti che le difficoltà della guerra ha ridotto dai previsti 500 ad appena un centinaio. Per il resto, assicura Dina, la sorella di May «non ci sono stati contrattempi. La vita deve continuare».
Eppure, nonostante il sole che inonda il sagrato, gli abiti eleganti che svolazzano al vento e la lunga fila di ospiti che s’affrettano a salutare gli sposi, chi allungando una busta, chi soltanto un abbraccio, c’è qualcosa che stona in quest’allegria un po’ obbligata.
Forse perché siamo nel quartiere di Kassàa, a duecento metri da Piazza degli Abassidi e a non più di tre chilometri da Jawbar, la roccaforte dei ribelli su cui il 23 agosto si è abbattuto il bombardamento chimico che ha fatto tremare il mondo. E da Jawbar la guerriglia tiene sotto tiro questo quartiere, come testimoniano le carcasse carbonizzate di due automobili parcheggiate di fronte alla chiesa, colpite da razzi Katiuscia.
Il fronte dell’interminabile battaglia di Damasco passa da qui. La ragnatela di posti di blocco che l’avvolge e ne strozza le arterie s’è irrobustita. Le postazioni di sacchetti di sabbia dicono che un attacco viene considerato possibile ovunque. Un nuovo nemico s’affaccia per le strade quando cala il buio, ed è la criminalità. All’autista che mi porta a Damasco hanno rapito il figlio.
Sequestro lampo. Riscatto di 25 mila dollari. Un’enormità. Due milioni di rifugiati provenienti dalle città dove impazza la guerra civile hanno fatto saltare servizi e prezzi. Un taxi che l’anno scorso costava 100 pound oggi ne costa 500.
Eppure il regime, almeno qui a Damasco, non dà segni di cedimento. Le scuole sono riaperte regolarmente, l’Università è affollata. Dopo essere stati evacuati per precauzione, nei giorni scorsi, i ministeri hanno ripreso a lavorare. «Quelli che s’aspettano la caduta di Assad sono come quelli che s’aspettano un film porno trasmesso da Al Manar (la tv degli Hezbollah, ndr)», sorride un amico siriano.
Tra fatalismo e rassegnazione. «Cos’altro ci può capitare che non abbiamo già visto in questi due anni e mezzo di guerra civile? », la minaccia americana di bombardare i siti militari siriani, in risposta all’attacco chimico di Jawbar, è piombata sulla gente di Damasco come un altro inutile flagello. «Perché Obama s’è indignato per i morti di Jawbar e non per i centomila che sono stati uccisi prima e per quelli che vengono uccisi davanti alle telecamere al grido di Allahu Akbar?
», si chiede monsignor Isak Barakat, vescovo di Afemia (la Città Vecchia) del Patriarcato greco ortodosso di Damasco, che ha officiato il matrimonio di May e Kinan. «E poi, scusate — insiste polemico — tutti abbiamo visto le immagini delle vittime. Ma dov’erano i genitori, le famiglie di quei bambini?».
Non è qui, tra i cristiani di Siria, stretti tra un’adesione opportunistica al regime e la minaccia non infondata che se a vincere dovessero essere i jihadisti di Jabat al Nusra il futuro per loro sarebbe anche peggiore, che la minaccia dell’uso della forza da parte di Obama può trovare adesioni. «Non avrebbe senso bombardare la Siria — continua il vescovo — perché l’America non farebbe altro che
aggiungere dolore al dolore. Anche se si è parlato soltanto di obiettivi militari, sappiamo, perché lo abbiamo visto molte volte in passato, che le bombe non hanno occhi. Soltanto il dialogo può servire a mettere fine alla guerra».
«In ogni caso — aggiunge Jamal, il cognato di May, che ha condotto la sposa all’altare — sarebbe soltanto la gente a perdere ». E poi vaglielo a dire ai cristiani siriani, sempre più numerosi quelli che partono, sempre meno quelli che restano, di essere imparziali. Al di la dell’eclatante e incomprensibile battaglia di Ma’lula, il santuario di Santa Tecla a 40 chilometri da Damasco, “conquistato” dai Jihadisti di Jabat al Nustra, per un motivo evidentemente simbolico, o propagandistico, ognuno qui ha una sua storia “piccola” ma dolorosa da raccontare, un episodio da mettere agli atti in quella che rischia di diventare l’odissea di una minoranza.
Sugli scalini di marmo che portano alla chiesa, la dottoressa Bassima, abbraccia una nipote che ha vissuto una brutta esperienza qualche mese fa, allorquando, mentre cercava di espatriare in Giordania è stata bloccata al confine da una banda islamista e rispedita indietro. «L’hanno tenuta per quattro ore nelle oro mani — dice, cercando di fermare le lacrime — senza un perché, mentre tutte le altre donne musulmane sono state fatte passare». Yusseph, orafo di Bab Tuma, lo storico quartiere cristiano della Città Vecchia, racconta della sua casa di campagna saccheggiata e incendiata, la bibbia dissacrata. Maria, chimica all’Università, ricorda il fratello, fermato dai jihadisti mentre cercava di rifugiarsi ad Harasta. «La mia famiglia viene da Hamas. Io sono stata la prima a trasferirmi a Damasco. Lui, George, è voluto restare. Voleva essere l’ultimo ad andarsene perché non voleva lasciare la casa e il lavoro. Ancora lo aspettiamo ».
Ma monsignor Isak non s’associa a questi lamenti. «Io noto che se molti hanno deciso di partire da Damasco per andarsene all’estero, tanti altri cristiani sono arrivati dalla provincia e hanno ricevuto ospitalità. È per questo che ogni domenica nella nostra parrocchia si celebrano due o tre matrimoni. Vi sembra questo un segno di paura o un segno di forza?».


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