Un percorso a ostacoli per Obama Anche l’11 settembre gioca contro di lui

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NEW YORK — La mattinata di oggi la passerà a concedere interviste televisive a raffica che verranno trasmesse dalle sei maggiori reti americane un’ora prima dell’attesissima partita con la quale i Redskins di Washington esordiscono stasera nel campionato della Football League contro il Filadelfia. Poi, domani, il messaggio solenne alla nazione dalla Casa Bianca, mentre deputati e senatori che tornano stamani a Capitol Hill dopo la pausa estiva verranno chiamati uno per uno dal presidente o dai suoi uomini.
Dopo aver scelto, dieci giorni fa, l’impervia strada dell’approvazione parlamentare dell’intervento militare americano in Siria per punire l’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, Barack Obama lancia una disperata offensiva per cercare di capovolgere una situazione che, ad oggi, si presenta per lui disastrosa: opinione pubblica in gran parte contraria al coinvolgimento di Washington nel conflitto siriano e Congresso spaccato, col Senato che dovrebbe votare a favore dell’intervento mentre alla Camera il presidente rischia di perdere e anche di parecchio.
Un recupero è ancora possibile. Con la riapertura del Congresso potrebbe cambiare anche il clima politico: deputati e senatori, fin qui esposti agli elettori dei loro collegi che non vogliono sentir parlare di un’altra guerra dopo quelle in Afghanistan e Iraq, a Washington respireranno un’aria diversa. Sentiranno il peso di un «no» che delegittimerebbe il loro presidente davanti al mondo e subiranno pressioni di gruppi influenti come l’Aipac, la superlobby ebraica, in questo caso schierata con Obama.
Oltre che con il Congresso, Obama deve poi vedersela con un calendario infernale che rende quasi impossibile concepire un attacco a settembre. Anche se Senato e Camera si esprimessero a tempo di record (cosa che non avverrà) questa settimana è «chiusa» da ricorrenze (mercoledì quella della strage dell’11 settembre, venerdì e sabato, il 13 e il 14, Yom Kippur, la più sacra festa ebraica) con le quali non è certo il caso di far coincidere una campagna di missili.
Obama, però, non può andare nemmeno troppo in là: non vorrà certo parlare dal podio dell’assemblea annuale delle Nazioni Unite, la settimana dal 23 al 26 settembre, con la Siria in fiamme per i bombardamenti. Ci sarebbe la settimana prima, ma per quei giorni la Camera, quasi certamente, non si sarà ancora espressa.
Il Senato, che ha già una risoluzione approvata dalla Commissione Esteri, potrebbe votare già domani o mercoledì, ma la Camera non ha ancora nemmeno elaborato un testo e le prospettive, nonostante l’impegno dei leader democratici (Nancy Pelosi) e repubblicani (John Boehner ed Eric Cantor) a sostegno dell’attacco militare, sono assai cupe per Obama. Al momento i voti sicuri per lui tra i 233 deputati della maggioranza di destra non sono più di 25. Cresceranno, ma gli analisti dicono che difficilmente si andrà oltre quota 60, considerata la forte opposizione degli elettori all’intervento.
Dal Missouri all’Oklahoma non si contano le storie di deputati avvicinati da cittadini che chiedono loro con molta enfasi di votare «no». Anche l’«interventista» John McCain è stato duramente contestato nella sua Arizona. Molti repubblicani centristi tradizionalmente sostenitori di un forte ruolo internazionale degli Usa stanno rivedendo la loro posizione davanti all’ostilità popolare che rischia di spazzarli via alle prossime elezioni (tra un anno) a vantaggio dei candidati dei Tea Party e dai radicali libertari, assolutamente contrari all’intervento.
Così stando le cose, Obama avrà bisogno del sostegno compatto dei 200 deputati democratici ma, nonostante le cinque lettere scritte da Nancy Pelosi ai suoi parlamentari, per ora Obama non può contare su più di 115, massimo 130 voti.
Per spuntarla il presidente avrebbe bisogno della sua oratoria migliore, di argomenti «blindati» e dell’appoggio della sua formidabile macchina elettorale, ora trasferita in «Organizing for America», la struttura che fiancheggia il Partito democratico. Ma «Organizing» ha deciso di tenersi fuori dal caso-Siria e l’oratoria del presidente sembra appannata, ora che ha scoperto che aver convinto la gente che Assad ha superato la «linea rossa» dell’uso di armi chimiche non è servito a nulla. Gli americani non vogliono essere più i guardiani del rispetto delle regole internazionali: vogliono agire solo se c’è una minaccia imminente per loro. E Obama ha ammesso che Assad non minaccia direttamente gli Usa.
Dopo aver invocato la democrazia del voto, ora Obama chiede ai deputati di appoggiarlo anche contro il parere degli elettori richiamando il precedente della Seconda guerra mondiale, quando l’America non aveva voglia di intervenire anche con Londra bombardata da Hitler. Così mette i parlamentari davanti a un dilemma: commettere un suicidio elettorale o distruggere la credibilità del loro presidente.
Massimo Gaggi


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