BOLAñO INEDITO

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La pista di ghiaccio, che vinse il Premio Alcalá de Henares, è stata rieditata in Cile da Planeta, e il romanzo che vinse il Premio Félix Urabayen,
Il sentiero degli elefanti, uscì per Anagrama con il titolo Monsieur Pain.
Questi furono i tuoi primi tentativi narrativi o iniziasti tempo prima (penso al romanzo che, secondo Auxilio Lacouture in Amuleto, scrisse Belano a 17 anni)?
«A 16 o 17 anni scrivevo opere teatrali e romanzi, ed era molto pesante, stavo per impazzire. Iniziai a scrivere poesia quando conobbi i poeti messicani. La mia scoperta della poesia fu un momento felice, che ricordo come una liberazione. Scrivere poesia non era solo scrivere poesia, era anche leggere poesia, era vivere la bohème messicana, come fa un ragazzo a diciott’anni, la scoperta del sesso, dei bagordi, della vita. Comunque, tutto finì a vent’anni perché me ne andai in Cile per diventare un rivoluzionario nelle file di Salvador Allende, mi lasciai alle spalle tutto questo. Fortunatamente entrò in scena Pinochet e dovetti tornare in Messico e continuai la mia vita messicana, altrimenti, in Cile, letterariamente parlando, sarei finito male».
Di Stella distante m’impressionò il terrore soggiacente che emana, sulla falsariga de La semilla del diablo (o Rosemary’s Baby),che citi, significativamente all’inizio e verso la fine del romanzo: l’idea per cui il male possa stare dentro di noi.
«Il fatto è che Stella distante è fondamentalmente questo. È un’immersione nel male, nel male assoluto, se esiste. È tentare di vedere il volto del male assoluto, ma assoluto, assoluto».
Cambiando per un momento argomento, non di romanzo, credi che “Il Cile dimentica”?
«Sì, sì, tutti i paesi dimenticano. La memoria collettiva è forse una delle più fragili, una delle più deboli che possano esistere. Non ci si deve mai fidare della memoria collettiva».
Dunque credi che la missione dello scrittore sia ricordare, o meglio, far ricordare, far sì che non si dimentichi, e che questa è la missione che svolgono i racconti come “detective”, di Chiamate telefoniche?
«No, di questo non sono così sicuro. Almeno, la mia missione senza dubbio non è questa. Non faccio in modo che qualcuno ricordi qualcosa, è già tanto se io riesco a ricordare. Più che ricordare è guardare, semplicemente guardare qualcosa che uno molte volte non vuole neppure vedere. Però la missione di uno scrittore (ammesso che qualche scrittore abbia una missione, che in realtà non ha) non è servire da promemoria. Lo scrittore semplicemente scrive».
Si è detto che I detective selvaggi potrebbe essere letto come un insieme di racconti autonomi. Di fatto, proprio da lì è nato un nuovo racconto indipendente: Amuleto.
Il tua sarebbe, pertanto, «il genere di romanzo che Borges avrebbe accettato di scrivere». Che ne pensi?
«È molto generoso da parte di Ignacio Echevarría, che fu colui che fece il commento. Per me Borges è senza dubbio il più grande scrittore di lingua spagnola del XX secolo, lo scrittore completo. Un gran poeta, un gran prosatore, un grande saggista, è perfetto. Borges è un mostro sacro. Borges è Borges. Voglio però puntualizzare che I detective selvaggi non è un insieme di storie: è un romanzo, ed è un romanzo con una struttura difficilissima e un’unità tremenda. Che da lì scaturisca una storia, non ha nulla a che vedere con l’unità del romanzo. Un romanzo, come dice Stendhal, è uno specchio lungo il cammino, sono storie che passano lungo questa passeggiata per il sentiero.
Alla ricerca del tempo perduto non è altro che una successione di piccole storie. Tuttavia, Alla ricerca del tempo perduto è un romanzo con una solida struttura. Ogni cambiamento, dal momento in cui metti il punto e a capo in un romanzo, in un modo o nell’altro ti pone di fronte a una nuova storia. È come il flusso e il riflusso del mare. Ogni volta che c’è un punto a capo, la storia deve prendere un nuovo respiro. Devono apparire nuovi personaggi o una situazione nuova. Almeno un bar diverso. Questo fa sì che una storia sia una concatenazione di piccole storie. Ma tutto nella vita reale è una concatenazione. Il corpo non è altro che un’accumulazione di piccole storie, molecole, atomi, che nel congiungersi lo creano. A ogni modo, una cosa è un racconto e altra cosa un romanzo. In un romanzo può entrarci di tutto, sì. Però un romanzo è un romanzo, ha delle regole: in un romanzo una storia che sia totalmente separata, come in un corpo, o si tramuta in un cancro che hai dentro, o si trasforma in qualcosa che esce, come un figlio, però nei miei romanzi, non esce niente, tutto è assolutamente coeso. Ci sono connessioni, ci sono perfino autostrade che ti portano lontanissimo, però poi c’è sempre una strada per tornare. Per me uno dei migliori romanzi in lingua spagnola è Componibile 62, di Cortázar.
62 è un romanzo in cui puoi entrare da qualsiasi parte, da cui puoi uscire da qualsiasi parte e, tuttavia, il romanzo è completamente coeso. È un romanzo forse elastico, non ci sono ferri, ci sono materiali malleabili, duttili. Ma non per questo si spezza il corpo del romanzo».
Preferisci dunque una critica che ti accosti a Cortázar?
«Amo moltissimo Cortázar. Lo conobbi in Messico moltissimi anni fa. Per me fu come conoscere un dio. E in più sembrava proprio un dio: era bellissimo, altissimo, molto giovanile. Lo vedemmo per strada; era con Carlos Fuentes, entrambi con le rispettive mogli, e noi vedemmo solo Fuentes che seguimmo a distanza perché lo odiavamo. Improvvisamente uno disse: “Quello con Fuentes non era Cortázar?”. Tornammo indietro e ci fermammo a parlare con lui. Stavano aspettando un taxi che, per fortuna, tardò molto ad arrivare. Parlare di Cortázar per me è come parlare di Babbo Natale».
Non molto tempo fa sei tornato in Cile dopo una lunghissima assenza. Segui con attenzione ciò che là viene pubblicato? Pensi ci siano punti di contatto fra te e i nuovi narratori cileni o, come qualcuno dice in Stella distante, “l’unica cosa che li accomuna è la circostanza di essere nati in Cile”?
«Sì, l’unica cosa che ci accomuna è la circostanza di essere nati in Cile. Seguo con attenzione, ma anche con profonda noia, quello che si produce in Cile, perché ciò che si produce è davvero pessimo. Il Cile sembra essere condannato a non uscire dal circuito infernale fra Augusto d’Halmar e il peggior José Donoso, e che rapportato a oggi sarebbe un ping-pong infernale fra Skármeta e Luis Sepúlveda, o fra Luis Sepúlveda e Isabel Allende. Il fatto è che il Cile non è un paese di narratori, ne ha avuti pochi: il Cile è un paese di prosatori, che non è la stessa cosa. Inoltre in Cile si va alla ricerca della rispettabilità. Il cileno tende verso una rispettabilità disperata, vuole essere rispettato a tutti i costi, e per scrivere romanzi bisogna prima di tutto sbarazzarsi della rispettabilità. Scrivere è un mestiere rischioso, e la rispettabilità è un ostacolo pesante. Inoltre i cileni confondono la rispettabilità con il senso di “uomo onore” come lo intende la mafia siciliana. In Cile la rispettabilità è come un codice mafioso in cui basta frugare un po’ e dietro trovi sangue, viscere, azioni vergognose, corruzione, tutte cose che non c’entrano nulla con la rispettabilità ma che, almeno in apparenza, sembrerebbero ad essa legate e, ormai, non solo in Cile ma da tutte le parti. La rispettabilità sembra coprire fatti delittuosi, e inoltre continuo a credere che per scrivere bisogna collocarsi nella posizione che Villon, il poeta medievale francese, consigliava, quella del fuorilegge. Si scrive al di fuori della legge. Sempre. Si scrive contro la legge, non dalla parte della legge».
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L’intervista è pubblicata integralmente in La prossima battaglia. Interviste con Roberto Bolaño, a cura di Gabriele Morelli (Edizioni Medusa, trad. di Maria Luisa Molteni pagg. 74 euro 9) da oggi in libreria


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