Io, ex ragazza allo Zoo di Berlino salvata dal figlio che ho perduto

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BERLINO – La stazione dello Zoo, dove Christiane F. si prostituiva a tredici anni per comprare eroina, è ancora quella di un tempo. Malridotti sottopassaggi giallastri, venditori di currywurst, spigolosi passanti che non guardano mai nessuno in faccia. Sul lato posteriore di questo affumicato catafalco ferroviario, che il Land ha finalmente deciso di rimodernare completamente, i barboni fanno la fila, una bottiglia di birra in mano, nel centro di accoglienza della Jebenstrasse . A pochi metri da loro si è insediata la fondazione Helmut Newton: un palazzo imponente in cui sono esposti i ritratti sadomaso della beautiful people scattati dal fotografo tedesco trapiantato in California. Un incontro tra due mondi, come quello degli uscieri in livrea, cilindro in testa, che presidiano il grattacielo amputato in altezza del Waldorf Astoria (appena finito ma già predisposto, secondo un’usanza locale, ad una rapida fatiscenza), rendendo meno sinistro questo angolo occidentale di una Berlino vecchia-nuova.
Da quei giorni terribili degli anni Settanta che Christiane F. ci ha raccontato in un libro tradotto in diciotto lingue, la stazione rimane ancora una macchia. Solo gli antichi demoni si sono trasferiti altrove. Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino , era il titolo italiano. Un incredibile successo dovunque, anche grazie al film di Uli Edel che uscì nel 1981, colonna sonora di David Bowie, un altro grande vecchio di questa città che ha troppe leggende. Diciotto milioni di copie vendute.
Al contrario del luogo in cui la sua giovinezza stava per essere sradicata dalla droga e dagli abusi, lei è cambiata molto. Era destinata a morire come la sua amica Babsi — uccisa da una overdose a quattordici anni, la siringa conficcata nel braccio — ma non ha obbedito agli ordini di quella forza oscura. «Nessuno avrebbe creduto che avrei festeggiato un giorno il mio cinquantunesimo compleanno», sorride oggi Christiane (il vero nome è Christiane Vera Felscherinow), mentre la sua autobiografia, La mia seconda vita , arriva nei negozi tedeschi pubblicata dalla Deutscher Levante Verlag di Berlino (i diritti per l’Italia sono stati acquistati dalla Rizzoli) e, con tutti gli onori, alla Fiera di Francoforte. Sarà sicuramente un nuovo bestseller? È probabile. Lei lo spiega così: «La gente vuole sapere».
Molte lacrime sono state versate, trentacinque anni fa, sull’esperienza di questa ex bambina finita nell’abisso della tossicomania.
Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino , fece aprire finalmente gli occhi a tutti coloro che non si immaginavano la quantità di degradazione esposta nelle viscere di una metropoli. Christiane, un padre violento che la maltrattava, abitava nei casermoni modernisti della Gropiusstadt, il quartiere satellite progettato dal fondatore del Bauhaus e diventato un villaggio di rabbia ed emarginazione. Hashish a dodici anni, eroina a tredici, poi il corpo in vendita per procurarsi le dosi quotidiane.
«A tredici anni era un modo per riconoscermi, per appartenere ad un gruppo. Poi è diventata una vera e propria malattia. Se ne prende sempre di più, per affrontare le sofferenze fisiche prodotte dalla dipendenza», sono le sue parole di oggi. Con lei molti altri, uniti dalla stessa sorte. Babsi, ma anche Detlef, Stella, Kessi, Atze.
La sua vicenda sarebbe rimasta nell’ombra, relegata per sempre nel microcosmo della stazione, se due reporter di «Stern», Kai Hermann e Horst Rieck, non le avessero fatto raccontare ciò che gli altri erano determinati a fingere di non vedere. Il libro uscì insieme al settimanale, poi diventò un caso planetario.
Della «seconda vita» di quella che i tabloid hanno definito «la drogata più famosa del mondo» si è saputo solo a tratti. Ma è grazie alla giovane Sonja Vukovic, studentessa di giornalismo, che ora sappiamo tutto. Con quel tocco di umana dolcezza, più forte delle violenze, che già era emerso chiaramente nel racconto della sua giovinezza buttata. «La ragazza mi ha suonato al campanello, mi ha assediato per molto tempo, fino a quando non mi ha convinto a ritornare indietro nel mio passato», ha detto in un’intervista. Un angelo comparso in un appartamento di Kreuzberg, dove le due donne, finalmente, hanno parlato a lungo. È arrivata anche l’ora delle confessioni più segrete.
A Sonja, Christiane ha rievocato i momenti della sua lotta contro la droga: la disintossicazione e le numerose ricadute, i problemi con la giustizia, le amicizie pericolose, mentre malattie come l’epatite e la cirrosi debilitavano il suo organismo già minato.
A fianco di tutto questo, la fama e la notorietà improvvisa che la proiettarono su un palcoscenico molto più grande di lei: la speranza di diventare attrice e cantante, le esperienze sofferte nel mondo della musica, le prime sconfitte, le ultime delusioni. La fuga in Grecia, dove trascorre «un periodo felice», il trasferimento in Olanda. Due aborti e un figlio che rimane la cosa assolutamente più importante. «Un piccolo essere che aveva bisogno di me. E lui era tutto quello di cui avevo bisogno io», ricorda. «Per merito suo — aggiunge — sono diventata una persona migliore».
La grande amarezza è che Jan Niklas le è stato portato via, affidato ai servizi sociali. Lei però lo incontra regolarmente.
Ora ha diciassette anni, la stessa età, più o meno, di quelle giovani donne che battono ancora adesso la Kurfürstenstrasse, non lontano dalla discoteca Sound, il quartier generale, allora, di un’epoca non proprio così lontana.
Altre Christiane, che nessuno ha intenzione di salvare.


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