Pechino, attacco a Tienanmen auto in fiamme sui turisti: 5 morti

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PECHINO — Ci sono voluti 24 anni e mezzo, ma il fuoco della protesta sembra tornato ad ardere in piazza Tienanmen, cuore del potere cinese. Nel giugno 1989 Pechino aveva dovuto schierare i carri armati per soffocare la rivolta democratica degli studenti. Ieri sono bastate le autobotti dei pompieri per spegnere le fiamme di un’auto che si è schiantata contro i ponti in marmo bianco all’ingresso della Città Proibita. Diverso anche il bilancio delle vittime: centinaia nell’anno dell’implosione del comunismo sovietico, cinque ieri, gli occupanti della vettura e due turisti, una filippina e un cinese, che stavano per entrare nella dimora imperiale. Trentotto i feriti.
Nessuna conferma ufficiale che si sia trattato del tentativo di un attentato, di un attacco terroristico finito male, o di una spettacolare auto-immolazione della minoranza tibetana. L’imbarazzato silenzio di governo e vertici della polizia, oltre che una dinamica altrimenti inverosimile, hanno però avvalorato la pista della protesta, quasi escludendo quella di un incidente stradale. Ipotesi rilanciata anche dal popolo del web, che ha subito accreditato il sacrificio tibetano, mentre la censura comunista si affannava a cancellare dalla Rete immagini di testimoni e commenti. Il terrore, proprio sotto il ritratto di Mao Zedong che campeggia sopra la porta principale della Città Proibita, poco prima di mezzogiorno.
Un suv bianco, nel tratto tra i due semafori che limitano il lato Nord di piazza Tiananmen, lungo il viale Chang An, ha  improvvisamente sterzato a novanta gradi, travolgendo le transenne che separano il traffico dalla folla dei turisti. Nessun segno di frenata. Testimoni rivelano che l’auto, evitati alberi, lampioni e un posto di blocco, ha continuato ad accelerare, abbattendo due file di colonnine in pietra, quasi volesse irrompere nella città imperiale. Altri passanti, presto portati via dagli agenti, riferiscono di aver udito un’esplosione, subito prima che il Suv arrestasse la sua corsa e prendesse fuoco. Dal cuore di Pechino si è alzata una colonna di fumo, prima bianca e poi nera, mentre l’allarme è scattato sia a Zhongnanhai, il quartier generale del potere, che nel palazzo del Popolo, sede del presidente Xi Jinping. In pochi minuti la zona è stata evacuata, chiusa con barriere verdi e ripulita, impossibile
avvicinarsi. Reparti speciali hanno obbligato il traffico a scorrere lungo il viale, chiusa la fermata del metrà sotto la piazza. Il luogo dell’esplosione è stato raggiunto da ambulanze e vigili del fuoco, impegnati a impedire che le fiamme raggiungessero la loggia in legno rosso da cui da oltre sessant’anni si affacciano i leader del partito.
Il ministero degli Esteri si è limitato a dire di non avere «informazioni dettagliate». I media di Stato hanno trasmesso una breve notizia, ammettendo che «un’auto è uscita di strada e ha preso fuoco». Nessun cinese crede però all’eventualità di un incidente, proprio sotto il ritratto del Grande Timoniere in un tratto di strada rettilineo dove si procede a quaranta all’allora, e il Paese si interroga su obbiettivi e protagonisti della misteriosa protesta. Remota l’ipotesi di un gesto kamikaze contro il regime e a favore della democrazia, o una provocazione-beffa simile a quella dell’aviatore tedesco Mathias Rust, che nel 1987 atterrò sulla piazza Rossa, davanti al Cremlino. Più probabile l’auto-immolazione di matrice tibetana, dopo che la settimana scorsa Pechino, davanti all’Onu, si è spinta a dichiarare che sotto il suo controllo «i tibetani oggi sono felici». Opposta la realtà: in tre anni sono 122 i tibetani, in gran parte monaci buddisti, che si sono suicidati con il fuoco per denunciare la colonizzazione cinese e chiedere il ritorno del Dalai Lama a Lhasa, mentre la regione himalayana resta chiusa agli stranieri.
Resta il giallo, ma sotto accusa finisce la macchina della sicurezza cinese, dopo che un anno fa erano circolate voci di un possibile golpe dell’esercito. Fra tre settimane nei palazzi affacciati su piazza Tiananmen si riunirà il primo plenum del partito dopo il passaggio del potere, scosso dallo scandalo Bo Xilai, mentre la Cina si appresta a celebrare i 120 anni dalla nascita di Mao. Sapere che i luoghi più sensibili della seconda potenza mondiale sono vulnerabili, per la nuova leadership assillata dall’incubo-stabilità, è un allarme che dal 1989 non suonava più.


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