Quegli indizi positivi e il coraggio che manca

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Capita quindi che anche di fronte a indizi che parlano un’altra lingua lo scetticismo professionale prevalga. E vince anche se, come è accaduto l’altro ieri, arrivano almeno tre notizie che vanno nella stessa direzione.

Dalla Confindustria di Padova, uno delle roccaforti del manifatturiero italiano, comunicano che il 70% delle aziende di un campione di 356 imprese della provincia selezionato dalla Fondazione Nord Est è tornato a livelli di ricavi superiori al 2008.
Lo stesso giorno la Confprofessioni fa sapere che nei primi sei mesi del 2013 gli studi professionali — che tutti consideravamo morti e sepolti — hanno assunto 26.300 impiegati e 4.300 apprendisti con un saldo positivo di 8 mila unità. Poi la Fipe-Confcommercio elabora i dati sulla spesa degli italiani in bar e ristorazione e scopre che le difficoltà dei pubblici esercizi ci sono ma non siamo di fronte a una caduta verticale. I bar continuano a lavorare molto, scende il numero di chi pranza fuori ma aumenta quello di chi va al ristorante o in pizzeria per cena. Continuiamo a spendere per i pasti fuori casa il 32% in più dei francesi e il 53% in più dei tedeschi. I tre indizi non possono essere sommati tra loro, troppo differenti sono le situazioni e tutto sommato si tratta di una campionatura assai ristretta dell’economia reale. L’impressione che resta è che comunque le sorprese della crisi siano molte e che anche in questo campo le letture ideologiche non servano. Meglio raccontare deritianamente ciò che accade, la fenomenologia, e imparare.
Messi i tre indizi nel cassetto il giorno dopo però il cronista della crisi si trova davanti nuove evidenze e di tutt’altro spessore. Innanzitutto lo spread: è arrivato a quota 229 ovvero ai livelli del luglio 2011 alla vigilia della crisi dei debiti sovrani e prima della famosa lettera della Banca centrale europea che provocò un terremoto politico. È opinione comune degli osservatori che il calo del differenziale Btp-Bund non sia tutto merito nostro ma abbiamo lucrato su avvenimenti della finanza globale, come il paventato shutdown americano. Come che sia però lo spread è sceso ed è un test dell’orientamento dei mercati, che se vale in senso negativo non si capisce perché non debba funzionare anche all’incontrario.
Poi nella stessa giornata di ieri è stato pubblicato il bollettino economico della Banca d’Italia, a suo modo una piccola Bibbia. Ebbene il paper sostiene che metà delle aziende ritiene di aver superato la fase peggiore e guarda con maggior convinzione alla possibilità di tornare a investire. Il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione comincia a farsi sentire nel suo effetto di sostenere la liquidità delle imprese che a loro volta stanno ripagando i fornitori, le banche e stanno lentamente tirando fuori dai cassetti i progetti giacenti. E allora il cronista un paio di domande se le deve porre: di fronte agli indizi della vita di tutti i giorni e davanti a evidenze come quello dello spread e dell’ottimismo di Via Nazionale che bisogna fare? Archiviare tutto e continuare a raccontare l’apocalisse o interrogarsi sulle novità che maturano e sulle opportunità da cogliere?
La verità è che ci siamo così abituati al peggio che ci è venuto il braccino corto del tennista, abbiamo persino paura di combattere la battaglia della ripresa e dell’uscita dalla crisi. A questa sindrome non sembra sottrarsi lo stesso governo che continua a lavorare prevalentemente e solo di cacciavite senza vedere gli spazi e le occasioni che si aprono, ma anche la società civile non pare che questa battaglia la voglia fare davvero. Siamo preda di un deficit di motivazioni che alla fine ci fa preferire il declino piuttosto che metterci in discussione. E invece dovremmo ricordarci che 229 punti di spread sono ancora un’enormità e comportano che famiglie e imprese paghino il denaro il 2,3% in più dei tedeschi.
Dario Di Vico


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