La guerra per la cassaforte di An così gli ex colonnelli si contendono il patrimonio di 230 milioni di euro

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ROMA — Sventolano di nuovo, le bandiere di Alleanza nazionale. E coprono per un giorno le faide tra i colonnelli e le mille schegge di una galassia annientata dal berlusconismo. Partitini dello zerovirgola, rancori da record. Eppure, dietro la polvere e i veleni si intravede una cassaforte. Cinquantacinque milioni cash e un patrimonio di settanta immobili, stimato da alcuni in 170 milioni. Vince chi trova la combinazione.
È il paradosso degli eredi di via della Scrofa. Con la Fondazione An gestiscono una fortuna di almeno 110 milioni di euro – secondo altre stime addirittura 230 milioni – ma nessuno da solo può spenderla. Duellano per il controllo del cda, ma sono rimasti senza contenitore politico. Diciassette anni fa raccoglievano il 15,75% alle Politiche, oggi sono ridotti a inseguire la chimera del 4% alle Europee. Magari per disperazione, ma finalmente qualcosa si muove.
Il patrimonio, innanzitutto. Quando si decretò lo scioglimento di Alleanza nazionale, i gioielli di famiglia confluirono alla fine nella Fondazione. Soldi, tantissimi. E immobili di pregio che neanche alla Lotteria di Capodanno. C’è la storica sede di via della Scrofa – a due passi da Montecitorio – quella di via Sommacampagna e via Livorno, lo stabile milanese di via Mancini. E ancora, l’immobile romano di via Paisiello, cuore pulsante dei Parioli, occupato di recente dal Giornale d’Italia della Destra di Storace. La Fondazione è presieduta dall’ex senatore Franco Mugnai, che elenca: «C’è il Secolo d’Italia. Poi gli immobili, stimati qualche anno fa dai periti in quaranta milioni. Forse valgono una cinquantina. Circa cinquanta milioni di liquidità. E poi ci sono i dieci milioni dell’Associazione ».
Già, l’associazione Alleanza nazionale, primo step per traghettare il partito nel cimitero delle forze politiche. Ha a disposizione dieci milioni di euro, ma su di essa pende una causa civile – intentata da Antonio Buonfiglio ed Enzo Raisi – per stabilire la validità dell’ultimo congresso che ha deliberato lo scioglimento di An. Il Tribunale, nel frattempo, ha nominato i commissari liquidatori per gestire quei dieci milioni.
La partita ruota attorno al cash. Ma il terreno è politico. Conta soprattutto il simbolo, riposto in cantina a causa di un predellino. Se lo contendono un po’ tutti, eredi legittimi e qualche parente alla lontana. Se lo contendono, ma non tutti vogliono scongelarlo. Ignazio La Russa, ad esempio, è scettico assai: «La decisione spetta ai mille soci della Fondazione. Fratelli d’Italia, comunque, è la prosecuzione di An. Io lascerei il simbolo di An alla storia e andrei avanti». Contrarissima a riesumare il logo nato dal travaglio di Fiuggi è anche Giorgia Meloni, che non intende ospitare la prima linea dei colonnelli. Solo Gianni Alemanno ha trovato posto nel suo contenitore. Gli altri, che in pensione non ci vogliono andare, si sono organizzati.
Sabato scorso Francesco Storace (Destra) e Buonfiglio, Adriana Poli Bortone (Io Sud), Roberto Menia (Fli) e Luca Romagnoli (Fiamma tricolore) lanciano il Movimento per Alleanza nazionale. Sostiene il leader della Destra: «Le risorse? Non voglio avvicinarmi a una materia che credo porterà qualche problema. A noi basta il simbolo. Ne ha diritto una comunità ». Storace invita anche Meloni: «Non mi vuole? Se ci sono pregiudizi verso di me, allora c’è un problema».
Ma quanto vale, questo benedetto simbolo? Secondo molti almeno l’1,5%. Addirittura il 5%, sognano i più ottimisti. Poco importa, secondo Maurizio Gasparri: «Non aderirei alla rifondazione di An. E vedo gente che pochi mesi fa sventolava la bandiera di destra accanto a Monti. Oggi vogliono fare tutti la destra, appassionatamente…».
Il consiglio di amministrazione della Fondazione An ha in mano il timone. È composto da quattordici membri (a breve diventeranno quindici) fra i quali La Russa e Gasparri, Alemanno e Matteoli. C’è anche il finiano Donato Lamorte, decano missino. Ed Egidio Digilio, avvistato al convegno romano di Storace e Menia. Di recente hanno destinato un milione di euro all’anno – gli interessi dei beni – a progetti di destra.
Ma il cda resta un risiko. Veti incrociati, un forte asse tra la Russa e Alemanno, maggioranze variabili. Nessuna, comunque, favorevole a scongelare il simbolo. «Non possono bloccarlo », giura Buonfiglio. Si vedrà. Anche perché le anime della destra potrebbero raggiungere un’intesa per dividere immobili e cash. Una soluzione che però non convince Gasparri: «Il partito non esiste più, per me i beni vanno restituiti allo Stato. O destinati alle vittime degli anni di piombo, intitolati ai fratelli Mattei».
Gianfranco Fini, ufficialmente, resta alla finestra. Presenta il suo libro in giro per l’Italia, si dedica alla Fondazione Liberadestra. Non scommette sulla riunificazione, ma non la ostacola. E infatti i suoi fedelissimi sono della partita. Uno è Daniele Toto, coordinatore di Fli: «Penso che sia utile ridare fiato a una destra moderna ed europea. Ci devono entrare tutti. E serve un cambio generazionale». E Roberto Menia ricorda: «Fui l’unico a votare contro lo scioglimento di An. Sembravo un pazzo visionario. Per punirmi, al congresso del Pdl mi fecero parlare a mezzanotte… Una diaspora spaventosa ci ha ridotto in pulviscolo, rimettiamo insieme i cocci». Difficile basti solo un simbolo.


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