Congressi, non fabbriche del voto Il confronto politico da rivalutare

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Per dire: correva l’anno 1965, e già dilagavano gli iscritti fantasma pescati a caso dagli elenchi telefonici, quando, alla Conferenza nazionale della Dc di Sorrento, Oscar Luigi Scalfaro suggerì sarcastico di celebrare la «festa del socio» il 2 novembre, giorno dei morti. Per dire: il vecchio Pci iscriveva, nelle regioni rosse, intere famiglie, consegnando al babbo le tessere di nonni, mogli e figlioli. Per dire: nel Psi degli anni Ottanta, il cui segretario Bettino Craxi veniva eletto direttamente dal congresso (a Verona, nel 1984, addirittura per acclamazione), nessuno avrebbe potuto indicare a quanto davvero ammontasse la sinistra interna, che veleggiava quasi per convenzione tra il 25 e il 30 per cento.
Ma c’è un ma. Nemmeno nelle loro stagioni più oscure a nessuno di questi partiti del passato (così come a nessun partito socialista o conservatore europeo del presente) sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello di ridurre il congresso a una pura e semplice conta interna di voti, saltando a pie’ pari persino il simulacro di un confronto politico. Giovani cronisti, nei congressoni democristiani compulsavamo l’espertissimo Arturo Parisi perché ci aiutasse con i suoi dati precisi fin nei dettagli a venir fuori dal labirinto delle percentuali spesso truccate, sempre discordanti, che ci venivano offerte dai factotum delle correnti: alla tribuna, però, si succedevano i protagonisti, e i loro interventi, così come i loro accordi e i loro disaccordi, pesavano sull’esito politico del congresso più dei numeri, veri o falsi che fossero, esibiti in partenza dai mozzorecchi. Nel congressi del Pci la commissione elettorale, quella che molto autorevolmente proponeva all’assemblea i nuovi organi dirigenti, era la più ambita: ma il dibattito congressuale c’era, e la lotta politica pure, nonostante il centralismo democratico. Potremmo continuare, estendendo il discorso a tutti gli altri partiti italiani, ma ci fermiamo qui. E, per avvicinarci alla novità vera introdotta dal Pd, prendiamo in prestito le parole di uno che se ne intende, Goffredo Bettini: «Ho visto che ci sono state situazioni in cui l’ultimo giorno di voto gli iscritti sono zompati da 100 a 350, 400… Ho letto lettere agli iscritti dove erano indicati orari del voto e poi “eventuale discussione politica”». Forse era un ingenuo chi, all’indomani della sconfitta elettorale, invocava per il Pd (se non ora, quando?) un congresso finalmente “vero”. Ma la possibilità di un congresso in cui la discussione politica fosse retrocessa al rango di una eventualità, più o meno come un buffet o l’esibizione di un cantante, non l’aveva messa in conto nemmeno il più caustico degli osservatori.
Invece le cose sono andate, stanno andando, proprio come dice Bettini, e pure peggio. Può darsi, anche se non lo credo affatto, che un congresso ridotto a “votificio”, e un partito (ammesso che il Pd sia mai stato tale) trasformato in comitato elettorale, siano l’indotto, tanto sgradevole quanto inevitabile, della modernità, anzi, della post modernità politica. Ma è meglio stare ai fatti. Il Pd è stato a lungo rappresentato, per dolersene o per compiacersene, come l’ultima forza simile a un partito presente sul mercato politico. Bene, anzi, male, malissimo: questa rappresentazione forse era sbagliata già ieri, sicuramente lo è oggi. Quando il Pd si manifesta ormai quasi ufficialmente, seppure con delle sacche di resistenza, come un non-partito che si dilania attorno a un non-congresso. E quindi si dà le regole, o le non-regole, del caso. A cominciare dalla madre di tutte le follie, che prevede due platee elettorali diverse, la prima, ristretta, formata dagli iscritti (compresi quelli dell’ultimissima ora), chiamata a decidere sui dirigenti di base e intermedi, la seconda, potenzialmente infinita, chiamata a eleggere, attraverso le mai abbastanza lodate primarie, il segretario e magari pure il candidato premier. Fermo restando, naturalmente, che di politica, cioè di programmi, di valori, di alleanze, di idee di Paese, non discuta nessuna delle due.
PS. Il giovane e brillante neosegretario del circolo di Pd di una bella cittadina del Basso Senese mi ha spiegato, moderando il suo sconcerto con una buona dose di garbata ironia, che gli iscritti hanno un potere in più di quelli sopra sommariamente indicati: sulla base del loro voto si forma infatti, se ho capito bene, la terna dei candidati alle primarie, che al momento sono quattro. C’è da immaginare che questo significativo passo avanti della democrazia interna sarà salutato con il plauso che merita da tutti. A eccezione, naturalmente, dell’escluso.


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