«Così il bambino si è mangiato i comunisti». L’ultimo atto del Pci (e del vecchio Pd)

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Intervistato da Alfonso Signorini (il che è già un segno) sul testo di Bandiera Rossa, Matteo Renzi ha detto di sapere «solo l’inizio»: «Comincia così, Bandiera rossa la trionferà…». Era invece la fine. Domenica scorsa, il Corriere Fiorentino ha chiesto agli elettori delle primarie di cantarla: con tutta la buona volontà, non la sapeva o non la ricordava quasi nessuno.
Una bandiera rossa del vecchio Pci si è vista sotto il palco dell’ultimo comizio di Renzi, a Empoli. L’ha portata il compagno Rolando Terreni di Sovigliana, 78 anni, in memoria del padre partigiano: «Matteo mi garba e io lo voto, ma prima deve baciare la bandiera!». Lui si è un po’ infastidito, non quando ha visto il drappo rosso ma quando ha visto la fotografia on line.
Ieri mattina, tra i pensionati della Spi-Cgil in fila al mercato di San Lorenzo per fare colazione con un panino al lampredotto, infuriava una gara di motteggi che avrebbe fatto impallidire il battutista Civati. Si faceva notare che «il bambino ha mangiato i comunisti» e che «il Pd ora cambierà nome. Siccome Forza Italia è già preso, si chiamerà Forza Eataly».
La scomparsa dei «comunisti» è la notizia del giorno, non solo nella rossa Toscana. La sconfitta di Cuperlo, ultimo capo della Fgci e intellettuale del dalemismo, segna la fine dell’egemonia rossa su un partito che aveva visto Veltroni travolgere la Bindi ed Enrico Letta, quindi Bersani battere senza troppi problemi prima Franceschini e poi lo stesso Renzi. E sembra dissolversi una volta per tutte il mito del comunismo italiano, per cui un’ideologia criminale o comunque sbagliata da Cuba alla Siberia diventava per l’élite culturale della penisola giusta o comunque nobile.
«Sì, vedo che molti giornali e siti Internet titolano sulla fine del Pci. Ma è una notizia vecchia» sorride Emanuele Macaluso, uno degli ultimi grandi vecchi del partito. «Il Pci non esiste più dal 1991, quando fu travolto dalle macerie del Muro crollato due anni prima. Ma, a mio giudizio, il Pci era morto già nell’estate del 1984, insieme con Enrico Berlinguer, sul palco del comizio in piazza delle Erbe a Padova. Domenica semmai è morto il Pd, almeno così come era nato. Io mi sono sempre rifiutato di chiamarlo partito. Era un aggregato di diessini che si erano illusi di poter governare il Paese aggregando un pezzo di Dc. Non poteva che finire miseramente».
Lo stesso Renzi rifiuta di usare le categorie del passato. Nega di essere mai stato democristiano, di appartenere allo stesso ceppo di Enrico Letta e Franceschini. Rivendica di essersi affacciato alla politica nel 1995, quando fondò il comitato per l’Ulivo di Rignano, il suo paese. Ha avuto amici comunisti, nella stanza da segretario in largo del Nazareno a Roma porterà la foto di Emanuele Auzzi detto Meme, segretario dei Ds fiorentini: «Gli ho voluto bene. Era un uomo splendido, all’antica, di cui ho un bel ricordo». Ma del «manipolo di pazzi», come nella notte della vittoria ha definito la sua squadra, solo due vengono dai Ds: Dario Nardella, il più strutturato politicamente, e Francesco Bonifazi, che Renzi considera «uomo da spogliatoio», il più adatto a stemperare le tensioni create da un temperamento nervoso come il suo. Gli altri sono quasi tutti di formazione cattolica, o semplicemente devoti a lui. Ma l’obiettivo del sindaco è dar vita a «un partito che non sia ex di nulla». La stessa formula usata da Veltroni al Lingotto; il quale però, per quanto negasse di essere mai stato «comunista in senso sovietico», agli occhi dell’Italia moderata era un ex pure lui. Poi è toccato a Pierluigi Bersani evocare il Pci emiliano, il riformismo pragmatico, la «ditta» affidata a vecchi compagni come Errani e Migliavacca, che hanno giocato in difesa una disastrosa campagna elettorale conclusa nel teatro del cabaret «de sinistra» romano, mentre Berlusconi andava nella tana di Santoro e Grillo si prendeva piazza San Giovanni. Sono state proprio le sconfitte, culminate con il voto che ha affossato prima Marini e poi Prodi, a travolgere «la vecchia classe dirigente», come l’ha liquidata Renzi domenica sera. Né si intravede un futuro a sinistra del Pd: dopo l’eclissi di Rifondazione comunista, anche Vendola appare avviato al declino; sponde per una scissione non ce ne sono.
«Sono storie finite o mai incominciate — dice Macaluso —. Ricordo un editoriale di Eugenio Scalfari: siccome i Ds erano al capolinea e la Margherita pure, non restava altro che la fusione. Ma la somma di due fallimenti non fanno un successo. Il nuovo partito è nato senza fondamenta politiche e culturali, come coacervo di gruppetti che ora si sono divisi. Toscani ed emiliani sono andati un po’ di qua e un po’ di là. Con Renzi ci sono uomini che hanno avuto un ruolo nel Pci: Fassino, Veltroni, gli stessi Chiamparino e De Luca. E il sindaco di Firenze ha potuto “scalare” il partito proprio per l’inconsistenza degli avversari. Un partito degno di questo nome non è “scalabile”».
Il grande sconfitto, D’Alema, ha evocato Craxi, senza nominarlo, con toni vagamente iettatori: «Abbiamo radici profonde. Uomini con più attributi di Renzi hanno provato a tagliarle, e hanno fatto una brutta fine. Farà una brutta fine pure lui». Ieri Pasquale Laurito, giornalista dalemiano e quindi esemplare di una specie più introvabile del liocorno, si è abbandonato sulla sua Velina Rossa a un’invettiva tipo catilinaria: «Caimano rosso, taverniere fiorentino, nuovo Benito…». I vecchi comunisti hanno per Renzi una diffidenza quasi antropologica, tanto da essere indotti in errori di valutazione, sostiene Macaluso: «Parlare del nuovo segretario come di un altro Berlusconi è una sciocchezza. Renzi non ha interessi privati, è una persona rispettabile. Ma appartiene a un’era politica del tutto nuova, in cui il livello culturale è drasticamente crollato. La sinistra storica era fatta di personaggi complessi. Togliatti era un intellettuale di livello europeo, un uomo che teneva testa a Stalin; ora i politici di sinistra si giudicano da come affrontano i grillini nei talk show e anche dall’aspetto fisico. Riccardo Lombardi era capace di parlare due ore. Pippo Civati spara battute a raffica da pochi secondi l’una, ed è pure caruccio. La cultura è considerata un handicap: aver letto qualche libro per Cuperlo si è rivelato un difetto imperdonabile. Mi fa tenerezza Mario Tronti, che Bersani ha portato in Parlamento: si aggira spaesato come in una landa deserta. Ogni tanto lo trovo in qualche convegno, dove può finalmente sfogarsi: prende la parola, cita Gramsci, ne disserta…».


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