Napolitano, la carta delle dimissioni e il richiamo all’«obbligo» delle riforme

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ROMA — Dopo la tempesta di segnali carichi d’ansia che tormentano gli italiani da quando è scoppiata la crisi, gli piacerebbe pronunciare parole in grado di ispirare fiducia. E si sforzerà di inserirne almeno un po’, domani sera, il presidente della Repubblica, nel suo messaggio di Capodanno. Ma senza rinunciare a quel «linguaggio della verità» che da tempo rivendica come indispensabile per rendere tutti consapevoli della sfida che il Paese sta affrontando e per spiegare i propri passi. Dovrebbe essere un messaggio più breve (forse sotto i 15 minuti) e diretto del solito. Con uno sforzo di semplificazione, diciamo così, espressiva, rispetto alla cifra istituzionale con cui si esprime sempre. Uno sforzo indispensabile, dato che per tradizione questo è un messaggio rivolto alle famiglie, alla gente comune.
Sarà un bilancio più agro che dolce, il suo. Con un richiamo, l’ennesimo, alla responsabilità dei partiti nella fase «eccezionale» che attraversiamo. E, di sicuro, con un memorandum sul patto che i partner delle «larghe intese», compreso il Berlusconi poi uscito dalla coalizione, s’impegnarono a onorare davanti a lui, all’atto di nascita del governo Letta: fare le riforme. In primo luogo quella della legge elettorale, divenuta ancor più indilazionabile dopo che la Consulta ha messo tutti in mora con una sentenza che ha alzato impietosamente il velo sull’inaffidabilità della classe politica. Il capo dello Stato l’ha lasciato intendere con chiarezza nell’udienza al Quirinale del 16 dicembre «con i rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile»: se si continuerà a «pestare l’acqua nel mortaio», ne trarrà le conseguenze. Vale a dire che, come ha ripetuto a quanti lo hanno incontrato nelle ultime ore, potrebbe dimettersi.
Minaccia pesante, concreta e carica di incognite. Infatti, sbaglia i conti chi magari pensa di lucrare qualche vantaggio alle urne nella convinzione che, se franasse in tempi brevi la nuova — e più stretta — maggioranza, come prima cosa scioglierebbe le Camere e manderebbe il Paese al voto. No, non è così. Un simile «favore» non è disposto a farlo. Se ne andrebbe lui, invece. Lasciando tutti «nell’imbarazzo» (eufemismo che sta per «grande guaio») di doversi scegliere un nuovo presidente entro 15 giorni, con questo Parlamento. L’alternativa seria, dal punto di vista di Napolitano, è mettersi al lavoro. Cambiando il sistema elettorale abbastanza in fretta e senza lasciarsi inchiodare dal paralizzante «amletismo delle soluzioni», che nessuno può prevedere a quale famiglia partitica potrebbero davvero portare vantaggio. E prevedendo pure il corredo di alcune parallele riforme di carattere costituzionale.
Il pasticcio accaduto nei giorni scorsi con il decreto salva Roma, ad esempio, dimostra per lui l’urgenza di una serie di ben congegnati ritocchi alla Carta, nel senso di rendere più efficace l’azione degli esecutivi. Per raffronto, infatti, il capo dello Stato ricorda l’epoca in cui Franco Bassanini, ministro per la Funzione pubblica, costruì un utile processo di delegificazione grazie al quale si trovò la maniera di non passare sempre attraverso il faticoso percorso dei disegni di legge (che ovviamente proteggono di più l’azione del governo), sostituendoli con provvedimenti amministrativi e leggi-delega. Oggi si è tornati alla vecchia prassi, con un carico di legificazione eccessiva. Tale da penalizzare le performance di Palazzo Chigi. Ecco perché, a suo avviso, bisognerebbe snellire procedure e sistema con qualche mirata riforma anche sul fronte del processo legislativo.
Non è detto che Napolitano ne parli in maniera esplicita, nel messaggio in diretta tv. Tuttavia anche questo capitolo è fra quelli che gli stanno a cuore, al pari di altre correzioni costituzionali per cambiare il nostro — ormai quasi paralizzante — bicameralismo paritario e per ridurre il numero dei parlamentari. Il tema, insomma, rientra tra le questioni che più lo preoccupano e che dovrebbero aver ispirato la stesura del suo messaggio, sul quale è ancora in corso l’ultima limatura. Un sottofondo di umori più o meno tesi, lievitati su tanti diversi snodi critici. Su tutti campeggiano gli interrogativi sulla tenuta dell’esecutivo: i numeri attuali sono sufficienti a garantire la navigazione e, a quanto pare, Matteo Renzi gli ha assicurato di non volerlo sabotare, ma è un fatto che il continuo gioco di interdizioni rende ogni giorno la vita difficile a Enrico Letta. E c’è poi un motivo di amarezza personale, per il presidente: il crescendo di attacchi politico-mediatici di cui è bersaglio e contro i quali si sente poco difeso. Anche qui, per chi lo conosce, c’è da aspettarsi qualche cenno di autodifesa e di denuncia, associato a un comprensibile scatto d’orgoglio. Perché certe accuse — di eccessivo interventismo, di supplenza indebita, di forzature nella prassi, addirittura di manovre per farsi rieleggere — sono per lui «uno spudorato rovesciamento della realtà». Dopotutto sono stati i leader dei partiti a bussare alla sua porta e a chiedergli di rimanere.
Marzio Breda


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