Iraq, nuovo rebus per l’America Aiuti per contrastare Al Qaeda

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WASHINGTON — Colin Powell, che pure aveva ratificato come segretario di Stato l’invasione di Bush, era stato molto chiaro sull’Iraq: «You break it, you own it», vale a dire, «una volta che lo hai rotto, i cocci sono tuoi». Era dieci anni fa. E i cocci non hanno mai finito di rompersi in quel Paese, anche se oggi gli Usa vorrebbero tenersi alla larga. Ieri lo ha ribadito l’uomo che guida il Dipartimento di Stato, John Kerry: è la «loro» guerra, non la nostra, però siamo pronti ad aiutarli contro i successi di Al Qaeda.
Washington ha escluso il ricorso alle truppe, ha già inviato dei missili, fornito dati di intelligence e promesso droni da ricognizione. Troppo poco per fermare un movimento ben organizzato e coeso. Servirebbero i droni veri, quelli con gli artigli. Reaper e Predator, in grado di esercitare una pressione continua sui militanti. La Casa Bianca, dopo molte resistenze, potrebbe autorizzarne l’impiego usando la Giordania come punto d’appoggio. Però tutti hanno ben chiaro che sono solo un mezzo. Il «mietitore di Obama» è un’arma e non una strategia in una regione che si è decomposta tra spinte incontenibili, errori, guai cronici.
Gli Usa si sono illusi (o hanno finto di farlo) che le autorità locali fossero in grado di gestire la situazione dopo che proprio le forze americane, con l’aiuto delle milizie locali, avevano ridimensionato l’Isis, la sigla che rappresenta i qaedisti in Iraq. Al tempo stesso la dottrina obamiana ha portato gli Stati Uniti ad una estrema diffidenza verso una regione che porta solo disastri. La Casa Bianca, per dirla brutalmente, non voleva altre rogne irachene. Al tempo stesso gli Stati Uniti hanno imboccato un sentiero ambiguo.
Vogliono contenere l’Iran sciita senza perdere di vista le vie del dialogo e, al tempo stesso, combattere il radicalismo sunnita alimentato da sauditi e kuwaitiani, ossia dagli «amici» storici dell’America.
La confusione statunitense si è saldata con l’inettitudine dei dirigenti di Bagdad, sciiti e quindi vicini a Teheran, e la spirale violenta della rivolta in Siria. L’Iraq, pur disponendo di un apparato di oltre 900 mila uomini, ha ceduto progressivamente terreno all’Isis, rinvigorito da quanto avveniva nello scacchiere siriano e riorganizzato da Abu Bakr Al Baghdadi, il leader chiamato a rilanciare la formazione qaedista dopo la perdita di molti esponenti. E nel luglio 2012 ha lanciato la campagna per la «Distruzione del muro» contro il potere sciita a Bagdad. I suoi uomini non si sono più fermati. Anzi, hanno allargato il raggio d’azione in Siria favorendo la nascita di formazioni affini. Il progetto è la nascita di un Emirato sunnita che comprende una parte dell’Iraq, le aree «liberate» sul territorio siriano e magari raggiungerà domani il Libano dove operano frange estremiste. Il gigantesco vuoto di potere creato dalla caduta dei dittatori e dall’instabilità permanente, l’inasprirsi del duello sciiti-sunniti, la facilità nell’uso della violenza (perché paga) hanno rappresentato le condizioni per la tempesta perfetta. Il momento propizio per i qaedisti, capaci come pochi di inserirsi nello spazio.
Chi tiene la contabilità del terrore ha calcolato che l’Isis ha raggiunto una media di 68 autobomba al mese. La pausa tra un attacco massiccio e l’altro si è ridotta ad una settimana, una finestra «riempita» con azioni minori ma comunque devastanti. I kamikaze, usciti a dozzine dalla fabbrica della morte, hanno affinato le loro tattiche infiltrando pellegrini e forze armate. Il flusso di armi proveniente dalla Siria ha permesso ai mujaheddin un salto di qualità nella guerriglia, così come i fondi dal Golfo hanno allargato il forziere del movimento. Talpe all’interno dell’establishment militare hanno favorito trappole complesse. E, in chiusura, è arrivata la conquista di Ramadi e Falluja. Luoghi con un doppio ricordo per gli americani. Qui i marines hanno combattuto non troppo tempo fa. Qui giacciono le vite spezzate da una guerra mai finita e che non doveva essere mai iniziata.
Guido Olimpio


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