Le guerriere anti-aborto

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NEW YORK. «Sembra di essere tornati agli Anni Settanta, anzi al Dopoguerra in quella società bigotta e moralista che inorridiva solo alla parola aborto, dove le donne timorate di Dio si facevano il segno della croce quando la sentivano. Purtroppo scopriamo che nell’America di oggi, moderna ed evoluta, un bene fondamentale come questo è messo in pericolo »: Vanessa Cullins parla veloce attacca le parole, usa come intercalare: «Incredibile, incredibile ». È una delle leader della Planned Parenthood Federation, la principale organizzazione che si batte «per il diritto delle donne ad una scelta libera senza pressioni o vincoli», le sue parole raccontano «la più grande crociata anti-abortista da quarant’anni a questa parte» che sta scuotendo il paese. Nel giorno dell’anniversario della sentenza della Corte Suprema che rese legale l’aborto il 22 gennaio del 1973 scendono in campo Barack Obama e papa Francesco. Il pontefice usa il suo account twitter per benedire la tradizionale Marcia per la vita, dove centinaia di manifestanti sfilano per le strade di Washington: «Prego per loro, dobbiamo imparare a rispettare ogni forma di esistenza, soprattutto quella dei più deboli: per la Chiesa è un valore sacro». Il presidente ribadisce in un discorso la sua linea: «Noi dobbiamo dare ad ogni donna la possibilità di prendere scelte consapevoli riguardo al suo corpo e alla sua salute. Per questo ci impegniamo ad abbassare ancora i conti della sanità per mettere tutte nelle stesse condizioni: questa deve essere la nostra battaglia».
Negli ultimi mesi quasi venti Stati hanno rimesso mano alla legislazione, alla Camera dove i Repubblicani hanno la maggioranza è stata votata una norma che vieta l’interruzione di gravidanza dopo le 20 settimane, che non passerà mai al Senato dove invece comandano i Democratici, ma tanto è bastato per mettere in allerta la Casa Bianca che in più occasioni conferma: «Il presidente è pronto a mettere il suo veto». Lo scontro è culturale, la politica lo cavalca. Con la competizione del Midterm alle porte, l’ala dura del partito conservatore, il Tea Party è deciso a sventolare la bandiera antiabortista per prendere consensi in un elettorato sempre più smarrito e dunque smanioso di nuovi totem a cui aggrapparsi. I Democratici vanno ovviamente in direzione opposta e contraria: «Se pensano di farci tornare indietro nel tempo sono pazzi o degli illusi. Lotteremo con tutte le forze per impedirglielo», spiega alle tv la deputata liberal di New York Louise Slaughter, una delle protagoniste sulle barricate. «Siamo ad una svolta, non sono le solite scaramucce che ci sono sempre state. I prossimi mesi saranno decisivi per capire in quale Paese vivremo: se vincono i divieti, sarà un danno irrimediabile da cui sarà difficile riprendersi per molto tempo», spiega Suzanne Goldberg che guida il Center of Gender and Sexuality Law alla Columbia.
A Washington nonostante il sole tira un vento gelido, gli oratori provano a riscaldare la folla: gli slogan sono quelli di sempre, come i cartelli. Dietro il palco si muovono anche Lila Rose e Kristan Hawkins: loro non erano nemmeno nate nel 1973 ma il Washington Post le incorona come simboli del nuovo movimento anti abortista, che — contro ogni previsione — conquista sempre più giovani.
Lila, californiana, ha 25 anni, i capelli neri lunghi lisci, racconta di essere stata «folgorata dalla rivelazione » a 9 anni quando le capita tra le mani un libro contro l’interruzione di gravidanza. Decide in quel momento che quella sarebbe stata la sua missione: «Una bambino è sempre un regalo, la vita che Dio ci dona va sempre salvata» è il suo mantra. A 15 anni fonda la prima associazione “pro life”, James O’Keefe è il maestro e guida, la loro azione è ai confini del crimine (lui verrà spesso arrestato): si introducono nelle cliniche e filmano con telecamere nascoste quello che accade oppure i colloqui con medici e infermieri che, secondo l’accusa, invogliano le donne a farsi operare. Lei compie blitz a Los Angeles e Santa Monica, si finge incinta e interroga i dottori poi posta i video su YouTube dove diventano in breve virali. Carol Joffe, ha scritto un libro sulla «guerra dell’aborto», osserva preoccupato: «Sono comportamenti pericolosi. Gli specialisti non sono più tranquilli e faranno sempre più fatica a svolgere bene il loro lavoro per il terrore di finire alla berlina». La minaccia è tale che alcune critiche mettono in piedi delle vere e proprie zone di sicurezza per tenere lontani i contestatori (e su questo si sta pronunciando la Corte Suprema).
Kristan ha 28 anni, porta gli occhiali, ha il viso tondo, cresciuta in una famiglia molto religiosa della West Virginia si definisce aborto abolizionista e il riferimento è evidente: «Non c’è alcun differenza tra quelli che hanno lottato per liberare uomini e donne messi in catene per il colore della loro pelle e chi adesso lotta per salvare la vita dei bambini». La sua organizzazione è attiva nelle università americane e persino nella New York che ha appena eletto Bill de Blasio trova consensi. Jeannette ha 22 anni e studia alla Nyu, è in treno, di ritorno dalla marcia di Washington: «Non mi interessa se qualcuno dei miei amici mi prende in giro: io sono fiera del mio impegno». Lei passa almeno due pomeriggi alla settimana in giro per le cliniche e gli ambulatori della città cercando di parlare alle donne intenzionate ad abortire: «Spiego loro che ci sono altre strade, che questa scelta non è una libertà ma una condanna».
Il Texas è l’epicentro della lotta. Qui il governatore Rick Perry riesce a far passare senza molti problemi la legge che vieta l’interruzione di gravidanza dopo le 20 settimane, poi riduce la vendita di farmaci e con una serie di cavilli burocratici rende sempre più complesso il rapporto medico paziente e la sopravvivenza delle cliniche specializzate: «Molte stanno già chiudendo e nei prossimo mesi oltre un terzo delle strutture sarà in disarmo», spiega ancora Vanessa Cullins. Il clima è da caccia alle streghe, lungo le strade di Houston, Austin, San Antonio spuntano continuamente picchetti di militanti anti abortisti: “Pray to end abortion”, preghiamo per mettere fine all’aborto è la frase di rito che apre e chiude le manifestazioni: preghiamo. La democratica Wendy Davis che provò con un ostruzionismo di oltre 11 ore a fermare la legge viene dileggiata su siti e tv: «Ha mentito sulla sua storia», la accusano adesso.
La creatività dei legislatori è sconfinata, tanto che la battaglia con i vari tribunali a suon di sentenze contradditorie è pressoché costante. In Ohio vengono tolti fondi agli ospedali e dirottati su programmi di educazione sessuale dove l’astinenza è la regola base, i medici hanno l’obbligo di illustrare la possibilità delle adozioni alle donne che vanno da loro. In Wisconsin la paziente si deve sottoporre ad un’ecografia perché così vede il feto, in North Carolina, Pennsylvannia e altri Stati la copertura assicurativa non funziona per l’interruzione di gravidanza, in Kansas i dottori che praticano l’aborto non possono insegnare nelle scuole.
Nicole Stewart ha 34 anni e fa l’attrice, il Dallas News racconta la sua storia. Lei e il marito vogliono un figlio, esultano alla gravidanza, lei pensa già ad un monologo dove racconterà la sua gioia. Ma la vita non sempre prevede lieto fine e applausi, l’ecografia rivela malformazioni cerebrali devastanti sul feto e lei decide di abortire dopo la 22esima settimana. Nel suo spettacolo non ci sono sorrisi e urla di neonati, ma solo il suo sguardo impietrito nel vuoto, la voce che si inceppa, le unghie conficcate nel leggio: «Ho deciso di rendere pubblica la mia esperienza quando ho sentito alla radio le parole di militanti integralisti. Io sono stata fortunata, ho avuto assistenza, i medici e gli psicologici mi hanno sostenuto, ma cosa succederà adesso alle altre ragazze? Chi le aiuterà?». Poi conclude: «Io non sono contro la vita, ho amato con tutto il cuore mio figlio ogni attimo che l’ho avuto dentro di me. Proprio per questo, anche se è straziante, rifarei quello che ho fatto: per lui, per il diritto ad una vita felice».

* per un’agitazione decisa dal Comitato di redazione i giornalisti di Repubblica si astengono dalla firma


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