Sbarco a Wall Street e investimenti Exor pronta a restare a quota 30%

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La certezza: approdo a Wall Street. La scommessa: rivoluzione premium. A partire dalle fabbriche italiane. Giusto il tempo di festeggiare il «momento epocale» della storia Fiat, come il giorno dopo tutti definiscono l’accordo che porta al Lingotto il 100% di Chrysler, e per Sergio Marchionne, l’azionista John Elkann, l’intero asse Torino-Detroit il lavoro ricomincia.
Non che si sia mai interrotto: il disegno è a lungo termine, ogni tassello incastrato al precedente e modellato per il successivo, ogni mossa adattata al momento e ogni momento, però, mai «staccato» dalla visione complessiva. Un ciclo continuo che oggi davvero tocca un traguardo «epocale». Ma che non completa, non ancora, percorsi e sfide. Finanziari e industriali.
C’è una strada, che è già tracciata. Porta al New York Stock Exchange. E la fusione a questo serve: in caso contrario potrebbe non essere necessariamente in agenda. Nel senso che l’integrazione operativa — vale a dire produzione, piattaforme, tecnologie comuni — è un fatto da tempo acquisito. Fiat-Chrysler lo sono già, qui, un’unica azienda. E, in bilancio, Fiat già consolida Chrysler (grazie alla quale macina utili a dispetto della crisi europea). Non era però la stessa cosa sul piano della finanza. L’enorme liquidità di Auburn Hills, più o meno 10 miliardi di euro indispensabili al Lingotto per «sparare» sul fronte investimenti ogni munizione disponibile, finora Marchionne non la poteva toccare (e oggi deve avere qualche carta di riserva, tipo un rifinanziamento dei bond 2019 e 2021, per rispondere ai dubbi di Fitch sull’«improbabile pieno accesso» al cash «prima del 2015-2016»). Né ovviamente valeva, il principio dell’azienda unica, dal lato societario. Certo, la Fiat con Chrysler dentro è già quotata, e la Borsa ha subito «benedetto» il passaggio dal 59,5% al 100% di Auburn Hills aggiornando del 16% il valore del Lingotto. Quella Borsa però è Milano. Mentre Fiat-Chrysler, gruppo globale, di globale (e meno costoso) dovrà avere sempre più anche l’accesso ai finanziamenti. Wall Street diventa dunque la tappa logica e obbligata (il che non implica per forza l’automatica scelta degli Usa come sede, ma nemmeno la permanenza in Italia: Cnh, che ha inaugurato lo schema, ha base legale in Olanda e fiscale in Gran Bretagna). Dopodiché: è pensabile sbarcare sul listino Usa con una società che rinunci, nel nome, al brand Chrysler? Tanto più quando da lì arrivano, ormai, ricavi quasi doppi rispetto a quelli dell’azienda che ha comprato e sta ancora in cima alla piramide?
È evidente: no. Questo tuttavia, in un gruppo che funziona proprio perché non c’è stata colonizzazione ma integrazione di due culture, non significa che le radici italiane siano destinate al taglio. Non andrà — non dovrebbe, almeno — così per la proprietà. «Se la torta è buona, più fette hai meglio è»: è la posizione di Elkann rispetto al rischio di diluizione post quotazione (probabile già quest’anno), non è cambiata, e grazie agli 1,3 miliardi di liquidità Exor potrà tranquillamente sostenere il proprio 30,5% quando, prima o poi, verrà aumentato il capitale. Ma non andrà — non dovrebbe, almeno — così neppure per il cuore produttivo: le fabbriche. Ad aprile Marchionne presenterà il business plan 2014-2017. Per sbloccare gli investimenti italiani in sospeso, Cassino in primis, aspettava si sbloccasse la vertenza con Veba. Ora quella è chiusa. Gli investimenti ripartiranno. E qui si giocherà la vera sfida: trasformare anche la «vecchia» Fiat da casa generalista in casa di marchi premium e lusso, in tutti i segmenti, per tutti i mercati (America inclusa). Operazione che è già cominciata con la 500 e soprattutto con la Maserati, che proseguirà ora con le Jeep e i suv Fiat di Melfi, che dà primi segnali più che incoraggianti ma avrà la prova «non per deboli di cuore» solo con l’Alfa. Operazione che è una rivoluzione a tutti gli effetti. Nessun altro costruttore l’ha mai tentata prima su scala così ampia. Ma nessun altro costruttore ci ha mai nemmeno provato. Come per tanti altri azzardi che, alla fine, sin qui hanno dato ragione a Marchionne.
Raffaella Polato


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