Troppi emendamenti ai decreti legge Una cattiva abitudine da estirpare

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La Costituzione è chiarissima. «Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale» (art. 72). «Articolo per articolo» non indica solo una caratteristica formale del testo, ma vuol dire che su ogni oggetto delle disposizioni proposte il Parlamento si deve esprimere distintamente e consapevolmente (ecco perché sono sostanzialmente incostituzionali i cosiddetti maxi-emendamenti, in cui il Governo ammassa una congerie di disposizioni di oggetto diverso, chiedendo su di esso la fiducia con un solo voto). Ancora: «Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere… I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione» (art. 77). «Necessità e urgenza» sono presupposti indefettibili di tutte le disposizioni del decreto, e quindi anche della legge di conversione, altrimenti incostituzionale. Il termine per la conversione è perentorio. Di emendamenti non si parla, anche se la prassi da sempre ha ammesso la «conversione con modifiche». Ma — stabilisce l’art 15 della legge del 1988 sulla attività di governo e sulla Presidenza del Consiglio (legge ordinaria, quindi non giuridicamente vincolante per le successive leggi, ma pur sempre espressione di un chiaro indirizzo costituzionalmente orientato) — «i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo». Quindi, anche per la legge di conversione, non qualsiasi contenuto, e non un pot-pourri di misure eterogenee.
Allora, perché questa dilagante prassi sciatta e ignara anche del buon senso? Qui non è questione di regole da riformare, ma di regole da rispettare. Si dice: ma il Governo, se non segue la strada del decreto, si scontra coi tempi lunghi delle due Camere; il Governo deve assicurarsi il consenso della sua maggioranza accogliendone le proposte più diverse e cedendo dunque almeno in parte all’«assalto alla diligenza» (ma il Governo non ha forse ampi poteri di intervento sull’ordine del giorno e sui lavori delle Camere; e la fiducia non serve proprio a «obbligare» la maggioranza ad allinearsi sulla proposta del Governo?).
In realtà, come nella vita delle persone, ci sono cattive abitudini che si incistano nella vita delle istituzioni, cui i protagonisti non resistono o non resistono abbastanza, considerando fatalisticamente che così si è sempre fatto e non c’è altro modo di andare avanti.
Se provate a porre, in qualsiasi sede ministeriale, il problema di un qualche intervento legislativo da promuovere, necessario per realizzare nuovi obiettivi o anche solo per chiarire o correggere una «zona» del tessuto legislativo contraddittoria, confusa o foriera di gravi inconvenienti (e Dio sa quante se ne sono accumulate, nel tempo), la risposta sarà invariabilmente che non è pensabile procedere, come sembrerebbe ovvio, attraverso la presentazione alle Camere di un disegno di legge ad hoc, e l’opera del Governo nelle Camere (c’è anche un apposito Ministro per i rapporti col Parlamento). Si guarderà invece se è in corso in Parlamento un qualsiasi procedimento legislativo, meglio se di legge annuale di stabilità o di conversione di un decreto legge precedente (che deve arrivare al traguardo entro tempi certi), in cui «infilare» un emendamento ad hoc, anche se estraneo alla materia originariamente contemplata dal provvedimento. Se le commissioni approvano, e soprattutto se la proposta entra nel «maxi- emendamento», il gioco è fatto. Altrimenti, si dovrà aspettare la prossima occasione. Il disordine legislativo in questo modo aumenta a dismisura ogni giorno, rendendo disperata l’impresa, anche degli addetti ai lavori e non solo dei comuni cittadini, di capirci chiaramente qualcosa.
Ma davvero non c’è rimedio, se non le mitiche «riforme»? Davvero la discussione, per esempio, sulla opportunità di limitare l’uso delle sigarette elettroniche e diminuire le tasse sul tabacco — problema di salute pubblica, e non solo di entrate dello Stato — deve passare per la via di emendamenti estemporanei anziché per quella maestra di una legge apposita? Le cattive abitudini, come nascono e si consolidano, possono anche essere scosse via con la volontà, quando ci si accorge che sono davvero cattive. Quasi vent’anni fa si era consolidata al Governo (in tutti i Governi), con la connivenza del Parlamento, l’abitudine di emanare un decreto legge (che entra subito in vigore), portarlo all’esame delle Camere, che cominciavano a proporre emendamenti, e poi, nell’imminenza della scadenza dei sessanta giorni, di abbandonarlo e di emanarne uno nuovo con contenuto identico o analogo: e così via anche per molte volte, finché alla fine della «catena» veniva approvata la legge di conversione dell’ultimo decreto. In tal modo per mesi la disciplina della materia restava affidata a provvedimenti provvisori e precari. Nel 1996 la Corte costituzionale, dopo numerosi «preavvisi», decise che così si violava la Costituzione, là dove fissa un termine perentorio per la conversione: dunque non si poteva fare (sentenza n. 366). Qualcuno disse allora che in questo modo si sarebbe impedito al Governo di governare. In realtà si interruppe solo una cattiva abitudine che durava da anni.
E allora ben vengano riforme che offrano al Governo la possibilità di ottenere un tempo certo entro cui la Camera vota certi suoi provvedimenti ad oggetto ben definito, e alla scadenza di proporre un voto «bloccato», sì o no, sulle sue proposte; e che sopprimano il «bicameralismo perfetto» trasformando il Senato in una Camera rappresentativa delle Regioni che non vota la fiducia al Governo e interviene con poteri uguali a quelli della Camera solo in alcuni procedimenti legislativi.
Ma, intanto, come proposito per il nuovo anno, si abbandonino un po’ di cattive abitudini.

* Presidente emerito  della Corte costituzionale


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