I mille dimenticati di Rosarno

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Esseri umani con occhi grandi e persi, cuore dolente e dignità negata. Questo sono i mille migranti costretti a vivere da due anni come quei sacchetti di plastica, quella carta straccia, quelle lattine arrugginite di pomodori che spuntano dalla montagna di spazzatura che circonda le loro tende. Di tende, in verità, con la scritta ministero dell’Interno ce sono solo 50, il resto sono baracche. Le hanno montate senza curarsi dell’acqua che manca e della luce che non c’è e non sono più tornati. Questi uomini non servono più. Le arance che raccoglievano nelle campagne attorno a Rosarno, per pochi euro al giorno vengono pagate troppo poco, meglio lasciarle cadere e usarle per concimare il terreno. Nessuna parola può bastare a raccontare quello che gli occhi vedono, il naso respira, le orecchie ascoltano arrivando in questa desolata periferia di San Ferdinando, a pochi chilometri da Rosarno. Arrivano dal Burkina Faso, dal Mali, dal Congo. Alcuni hanno il permesso di soggiorno, ci sono rifugiati, altri irregolari.
 HANNO la pelle nera e la luce nello sguardo ferito a morte. Molti sono giovani altri meno. Uomini di colore che non credono più alle promesse dei bianchi. E neppure a quelle di chi ha il loro stesso colore come la ministra Cécile Kyenge, del Pd, che quando è venuta da queste parti a ritirare un premio non ha trovato il tempo per donare un sorriso a questi fratelli; e alla richiesta di aiuto, rivoltale dal sindaco Domenico Madafferi, ha risposto con un “non posso fare nulla sono un ministro senza portafoglio”. Senza portafoglio e senza umanità, come se fosse stata nominata solo per rompere la monotonia del bianco nella compagine di governo. Alle promesse della presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi, candidata blindata in Calabria che qui è venuta in campagna elettorale e una volta eletta ha dimenticato i loro volti e le loro storie. Almeno il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di promesse non ne ha fatte. Senza rispondere all’accorata lettera inviatagli, un anno fa, dal sindaco ha incaricato una ditta di Firenze di consegnare 450 coperte. Gli altri 550 possono anche morire di freddo, chi se ne frega. Così, mentre a Roma trascorrono il tempo a pesare sul bilancino dell’interesse personale un grammo di preferenze, due etti di soglia di sbarramento, qui a solo un’ora di volo dalla Capitale, nella bellezza struggente del Mediterraneo, mille esseri umani vivono in un lager. Non ci sono i forni crematori, certo. Non hanno sulle braccia numeri impressi a fuoco. Ma il diritto negato alla dignità ce l’hanno tatuato nell’anima. Non sono stati condannati da leggi razziali, ma vivono in una terra senza legge. Sono liberi ma non di vivere. “Da poco sono riuscito a fargli arrivare la luce abusivamente”, spiega il sindaco Madafferi. Un signore di 74 anni che ha strappato la tessera del Pd, eletto con una lista civica arrivato dopo che per ben due volte il Comune (governato dalla destra e dalla sinistra) era stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Un rappresentante delle istituzioni costretto all’illegalità per far tacere il suo cuore che non ce la fa più a sopportare il grido d’aiuto di queste persone. “Fai qualcosa per noi almeno tu, ti prego”, dice Akin quando vede passare davanti alla sua baracca con la bocca coperta dalla sciarpa per proteggere dal cattivo odore che sale dalle montagne di rifiuti, dalle pozzanghere putride, dai bagni biologici – anche questi allestiti dal ministero dell’Interno – che scaricano a cielo aperto. Non sa che il mio potere sta solo nella penna, magari mi confonde con Laura Boldrini, l’ex portavoce dell’Alto commissariato per i rifugiati, come molti di loro, che da presidente della Camera qui non si è ancora vista.
 EPPURE basterebbe così poco per restituirgli umanità. Poco più giù Geteye prepara il pranzo. Due pezzi di legna per riscaldare una piastra di ferro arrugginito, sopra due polli. Dentro la baracca, dove dorme, polli vivi chiusi nelle cassette della frutta. L’odore rende l’aria irrespirabile. Nella baracca accanto pezzi di carne coperti dalle mosche. Non hanno forchette. Non hanno piatti. Mangiano con le mani seduti per terra o su sedili di macchine abbandonate. Non hanno acqua potabile. E quella che c’è è gelida come l’aria che di notte spezza le ossa. Qualcuno lavora ogni tanto e ha bisogno di lavarsi. A vendergli per qualche euro acqua riscaldata dentro ai bidoni provvedono i fratelli più poveri. La povertà che aiuta la povertà più povera. Eh sì perché alla povertà, come alla vergogna e alla disumanità, non c’è limite.


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