La maggioranza variabile e il rebus dell’Economia all’esame di Napolitano

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Il leader del Nuovo centrodestra ha appena spiegato davanti alle tv (e, prima, a Giorgio Napolitano) che il suo partito non offrirà cambiali in bianco al premier in pectore. Prima d’impegnarsi, vuole «un patto scritto», nel quale siano precisati la natura politica, il programma e i piani di lavoro del nascituro governo, su modello di quell’accordo che in Germania ha consentito pochi mesi fa ad Angela Merkel un replay della «Grosse Koalition». Certo, ha ribadito la «buona volontà» del Ncd, Alfano. Puntualizzando però di aver bisogno di «almeno 48 ore» per decidere, dopo aver contrattato un compromesso per lui accettabile. Ossia, per dirla brutalmente, un modo di alzare il prezzo rispetto a chi la sta facendo facile.
È questa dichiarazione — più di ogni altra — a imprimere un brusco colpo di freno, a metà giornata, alle procedure per risolvere la crisi, una fase costituzionale in cui entrano in gioco le prerogative e le responsabilità più penetranti del presidente della Repubblica. Non sarà un passaggio sprint, come fino a venerdì pareva (se non altro per evitare vuoti di potere troppo lunghi), tanto da far profetizzare a tutti il conferimento di un mandato per Palazzo Chigi già per ieri sera o, tutt’al più, per stamane. Richiederà invece alcune ore in più, per dare modo al presidente della Repubblica di riflettere su quanto i partiti gli hanno esposto e di tirare un bilancio in grado di superare certe difficoltà che ha registrato. Problemi forse non troppo grandi e di sicuro non insormontabili. Tali comunque da far ipotizzare uno slittamento alla seconda metà della prossima settimana prima che l’esecutivo possa approdare in Parlamento. Tradotto: significa che la convocazione di Matteo Renzi slitterà a stasera o, più probabilmente, a domani. E che lo stesso Renzi avrà bisogno di qualche giorno supplementare, per chiudere il cerchio e stabilire la propria forza politica in questa sfida.
Provvede lo stesso Napolitano a spiegarlo: «Ho voluto dare rapidità alle consultazioni perché ci sia spazio e serenità per il lavoro successivo di chi avrà l’incarico di formare il governo. Avrà a sua volta bisogno di tutto il tempo necessario per le sue consultazioni, gli approfondimenti e le intese». Non basta. Il capo dello Stato, in risposta ad alcune polemiche (dei 5 Stelle e della Lega) sulla «inutilità» di un passaggio polemicamente ridicolizzato come «una farsa», sottolinea che «queste consultazioni, svoltesi a ritmo intenso ma con ampia possibilità per tutti coloro che ho consultato di esprimere le loro opinioni, non hanno avuto nulla di rituale o di formale. Tutti si sono impegnati entrando nel merito di valutazioni sulla natura di questa crisi, sulle prospettive di sua soluzione, indicando priorità e temi che si augurano siano posti al centro dell’attenzione di chi avrà l’incarico. In questo senso è stata una giornata per me interessante e ricca di stimoli e indicazioni, che naturalmente sarà mio compito trasmettere nel momento a chi dovrà lavorare alla formazione del nuovo governo».
E tra gli spunti e gli «stimoli» su cui dovrà ragionare per lo scenario che si sta profilando, uno gliel’ha offerto Berlusconi, quando ha materializzato la possibilità di una doppia maggioranza (con il sostegno di Forza Italia, dunque, ciò che potrebbe produrre imprevedibili tensioni) sulla partita delle riforme. Un «assetto variabile» che il Cavaliere gli ha illustrato nel corso di un faccia a faccia contestato a priori da qualcuno e definito da un testimone come «asciutto, concentrato sulla crisi, senza alcuna divagazione sui rapporti politici e sul Quirinale». Performance che il leader storico di FI ha subito dopo ripetuto in pubblico, esibendosi fra due corazzieri in una cifra di laconicità istituzionale per lui inedita, ma magari studiata apposta per offrire al Paese una prova di esistenza in vita — politicamente parlando — nonostante la condanna definitiva e la decadenza da senatore.
C’è da essere ottimisti sull’esito della crisi? Napolitano ha lasciato capire di esserlo. Anche se sa perfettamente che, a parte gli equilibri politici da ridefinire dentro la coalizione, uno dei nodi cruciali sarà adesso quello di come realizzare in concreto la discontinuità promessa da Renzi. Per certi ministeri, ad esempio, la discontinuità non può tradursi con un totale disconoscimento della strada percorsa finora e, in particolare, non può essere una cesura incoerente con gli impegni che sono stati presi nel recente passato con l’Unione europea a nome dell’Italia.
Il secondo comma dell’articolo 92 della Costituzione stabilisce che il capo dello Stato «nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri». Vale a dire che egli esercita quantomeno un potere di sorveglianza, che a volte è diventato di interdizione (vedi il caso Previti, nella stagione di Oscar Luigi Scalfaro), su questo aspetto della nascita di un governo. Ora, si sa che tra i dicasteri di cui si preoccupa maggiormente e sui quali non farà mancare a Renzi il proprio parere, ci sono quelli — assai delicati — della Giustizia, degli Esteri e, soprattutto, dell’Economia. Chi ricoprirà tale incarico dovrà essere riconosciuto competente, autorevole e credibile a Bruxelles e presso la Bce guidata da Mario Draghi. Un doppio fronte che continua a tenerci sotto osservazione.
Marzio Breda


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