Mamma Odessa

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Una can­zone ebraico odes­sita recita così: «Nella lon­ta­nanza della bruma si curva l’azzurro / e alle spalle del fiume è ada­giata sul mare dorato Odessa la mia cittá / lei incon­tra la can­zone e accom­pa­gna le can­zoni / Odessa Mamma mia città natale // Ah! Odessa perla sul mare / Ah! Odessa tu hai saputo di molte pene / Ah! Odessa amata estrema terra del mio sud / Vivi Odessa e fio­ri­sci // Nel mondo esi­ste un popolo spe­ciale che vive a Odessa // e dovun­que ti capiti di incon­trare que­sto popolo, lui canta alle­gro / a chiun­que chie­diate vi rispon­de­ranno: “ma sono gli odes­siti, la nostra Mamma ci ha par­to­riti così” // A Odessa c’è un faro, splende sem­pre per tutti / e dice: “fer­mati mari­naio, vieni da me / qui le porte sono sem­pre aperte // i boc­cali sono sem­pre pieni / e le donne bal­lano fino all’alba”».

Que­sto brano fa parte di un sin­go­la­ris­simo reper­to­rio di canti defi­nito blat­nyiepie­sni, «can­zoni del foglio» dalla parola tede­sca blatt. Il foglio a cui si fa rife­ri­mento era il docu­mento su cui si regi­strava l’ingresso dei cri­mi­nali nei luo­ghi di pena. In ita­lia le defi­ni­remmo can­zoni della mala­vita. Ma c’è un’altra can­zone che ci per­mette di acco­starci alla com­pren­sione di ciò che Odessa ha rap­pre­sen­tato per i suoi figli, si inti­tola Odessa Mamma e fa cosi: «Addio, per­do­nami Odessa Mamma / non dimen­ti­cherò mai la tua mera­vi­gliosa vista / e il mar Nero che con le sue onde per­cuote testar­da­mente le tue rive di gra­nito / i tuoi giar­dini e i Par­chi Gamma / dove è tra­scorsa tutta la mia gio­ventù / addio, per­do­nami Odessa Mamma / mamma gra­zie per avermi messo al mondo».

Non mi è mai capi­tato di sen­tire defi­nire con tanta par­te­ci­pa­zione e pas­sione la pro­pria città natale mamma. Invece i cit­ta­dini di Odessa e par­ti­co­lar­mente i suoi ebrei la vivono come la pro­pria madre. Le due can­zoni che ho citato fanno parte di uno spet­ta­colo dal titolo Adesso Odessa che ho con­ce­pito a quat­tro mani con il mae­stro Pavel Ver­ni­kov, ebreo odes­sita e pro­di­gioso vio­li­ni­sta «fab­bri­cato» dalla scuola Sto­liar­ski, la leg­gen­da­ria scuola vio­li­ni­stica ebraico-odessita, forse la più pre­sti­giosa acca­de­mia vio­li­ni­stica di tutti i tempi. Il nostro spet­ta­colo nasce dall’incontro del mio per­so­nale imma­gi­na­rio e dalla spe­cia­lis­sima e par­ziale espe­rienza reale di Ver­ni­kov. Ma che città fu Odessa nel momento del suo mas­simo splen­dore? La rispo­sta che pre­fe­ri­sco viene dal suo più grande can­tore, il genio della let­te­ra­tura ebraico-sovietica che fu Isaak Babel, e la dà in uno dei suoi capo­la­vori nar­ra­tivi, I rac­conti di Odessa che si aprono con que­ste parole: «Odessackver­nyi gorod». La parola ckver­nyi puo essere tra­dotta con cat­tiva, disgu­stosa, l’appellativo è affet­tuo­sa­mente iro­nico, dun­que Babel pre­senta cosi la sua città al let­tore: Odessa è disgu­stosa. Lo sanno tutti. Invece di dire «c’è una grande dif­fe­renza», a Odessa dicono «ci sono due grandi dif­fe­renze» e anche «così e cosà».

Eppure io credo che si possa dire molto di buono su que­sta straor­di­na­ria e incan­te­vole città dell’Impero Russo. Pen­sate — è una città nella quale è facile vivere, dove si vive alla luce del sole. Metà della sua popo­la­zione è costi­tuita da ebrei e gli ebrei sono gente che si è fis­sata nella testa alcune cosette molto sem­plici. Spo­sarsi per non rima­nere soli, amare per vivere eter­na­mente, accu­mu­lare denaro per avere una casa pro­pria e per rega­lare alla moglie la giacca di astra­kan, amare i pro­pri figli per­ché amarli è bel­lis­simo e comun­que neces­sa­rio… Poco oltre Babel aggiunge, «gli ebrei poveri di Odessa sono ves­sati dai gover­na­tori e dalle cir­co­lari ma non è facile man­darli via da dove sono, per­ché sono lì da tempo imme­mo­ra­bile. Ma non li man­de­ranno via e impa­re­ranno da loro molte cose. Con il loro impe­gno hanno con­tri­buito mol­tis­simo a creare quell’atmosfera di leg­ge­rezza e di splen­dore che ammanta Odessa». Non vi è dub­bio alcuno, l’anima di Odessa non è nep­pure pen­sa­bile senza i suoi par­ti­co­la­ris­simi, irri­pe­ti­bili ebrei. Per­sino i suoi ban­diti furono ebrei. Fra la fine dell’Ottocento e i due primi decenni del Nove­cento com­pi­rono le loro gesta gui­dati dal loro leg­gen­da­rio e pica­re­sco capo Mishka Japon­cik (Miche­lino il Giap­po­ne­sino), rein­ven­tato da Babel let­te­ra­ria­mente come Benia Krik, il re.

Costui al secolo si chia­mava Moi­siei Wol­fo­vic Vin­nitzky, figlio di uno sca­ri­ca­tore di porto, doveva il sopran­nome di Japon­cik, il giap­po­ne­sino, al suo ester­nare senza posa ammi­ra­zione per la mala­vita giap­po­nese, la Yakuza. Fu taglia­gole duro, appena si inse­diava in città un nuovo capo della poli­zia, pare incen­diasse un com­mis­sa­riato per dar­gli il ben­ve­nuto, ma anche grande sedut­tore, gen­ti­luomo e mece­nate delle arti. In que­sti ter­mini lo cele­brò l’altro grande can­tore ebreo di Odessa, Leo­nid Utio­sov, al secolo Lei­zer Yos­si­po­vic Weis­sbain. Ytio­sov fu can­tante di jazz e di reper­to­rio mala­vi­toso, inter­prete melo­dico eccelso, stand up come­dian, acro­bata di circo, regi­sta di spet­ta­coli a cavallo dei generi, attore famo­sis­simo dei musi­cal dell’era sta­li­niana e cele­bra­tis­simo arti­sta di popolo effi­giato sui fran­co­bolli. Odessa fu città mul­ti­cul­tu­rale popo­lata oltre che da ebrei, da russi, da ucraini e dal cosmo­po­li­ti­smo por­tuale di ame­ri­cani, inglesi, afri­cani. Que­sto popolo fu bagnato da un sole unico cele­brato anche da Babel e dovette essere spe­ciale se Di Capua com­pose ’O sole mio pen­sando a Napoli ma guar­dando il sole di Odessa. Quanto agli ebrei, essendo gli unici «ebrei del sole» in tutta la yid­di­sh­keit, hanno svi­lup­pato nel loro humor yid­dish, una sorta di allure napo­le­tana che ne fece delle mac­chine di iper­bole umoristica.

Babel e Yapon­cik com­bat­te­rono entrambi al fianco dei bol­sce­vi­chi, ma ne ven­nero fago­ci­tati quando la rivo­lu­zione si tra­sformò in regime. In fondo erano degli spo­stati. Spo­stato ma «vin­cente» fu anche l’ebreo odes­sita Zeev Jabo­tin­sky, revi­sio­ni­sta «rin­ne­gato», bril­lante scrit­tore ma per­verso inven­tore del nazio­na­li­smo ebraico ultra­rea­zio­na­rio che ha figliato i Begin, i Sha­mir e oggi i Neta­nyahu. Non ultimo può essere con­si­de­rato odes­sita hono­ris causa Lev Davi­do­vic Tro­tski che a Odessa non nac­que ma vi compì gli studi. Non a caso l’inventore geniale dell’Armata Rossa fra tutti i rivo­lu­zio­nari bol­sce­vi­chi fu il più colto, il più cosmopolita-poliglotta e il più poe­tico mal­grado la spie­tata repres­sione degli anar­chici di Kron­stad. La comu­nità ebraico-odessita di umo­ri­sti natu­ral born, si divise nel 1941 quando non potendo tenere la posi­zione, i sovie­tici ne dispo­sero una par­ziale eva­cua­zione. Dei 242.000 ebrei di allora, 95.000 rima­sero con la mamma per scelta o per ina­de­gua­tezza for­zosa a lasciarla. E, dopo essere stati col­piti dai pogrom più bru­tali e più fre­quenti ai tempi dello Zar Nicola II, cad­dero nelle mani dei fasci­sti rumeni di Anto­ne­scu. Furono can­cel­lati dal mondo con inau­dita bru­ta­lità, anche per­ché i cri­mi­nali di Anto­ne­scu, essendo car­ne­fici disor­ga­niz­zati , si eser­ci­ta­rono con un sur­plus di effe­ra­tezza rispetto ai nazi­sti per­ché siner­giz­za­rono cru­deltà e maldestria.

Fin qui fram­menti di pas­sato. E oggi? Per quanto attiene alla mia per­so­nale sen­si­bi­lità Odessa si è persa e con­sta­tarlo pro­voca ferite par­ti­co­lar­mente acute per lan­ci­nante con­tra­sto con il pas­sato. Gli ebrei cen­siti sono intorno ai ven­ti­mila e sono in peri­colo, lo dicono asso­cia­zioni ebrai­che di soli­da­rietà con sede in Israele. Ma, al di là di ogni altra con­si­de­ra­zione geo­po­li­tica o altro sulla bal­ca­niz­za­zione dell’Ucraina, su un fatto non ci sono dubbi. Quando la peste nera del nazi­fa­sci­smo e dell’ultranazionalismo rialza la testa e gli sten­dardi subito si sca­tena l’odore acre e nau­sea­bondo del san­gue inno­cente, dei mas­sa­cri, dei roghi e degli scempi di povera carne umana. E per chiun­que sia respon­sa­bile o com­plice di que­sto orrore non ci sono giustificazioni.


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