Tortura, Italia condannata

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L’Italia con­dan­nata nuo­va­mente per trat­ta­menti inu­mani o degra­danti dalla Corte euro­pea dei diritti dell’Uomo. Il caso pur­troppo non è raro, come le cro­na­che ci rac­con­tano: un uomo viene pic­chiato dai cara­bi­nieri dopo essere stato arre­stato. Ma que­sta volta ai giu­dici di Stra­sburgo, a cui l’uomo – Dimi­tri Alberti, cit­ta­dino ita­liano – si è rivolto, non è sfug­gito il fatto che nep­pure la magi­stra­tura è inter­ve­nuta ade­gua­ta­mente. Nes­suno, in pro­cura, evi­den­te­mente si è preso la briga di con­durre un’inchiesta appro­fon­dita sulla causa delle gravi lesioni che, a detta dei cara­bi­nieri, l’uomo si sarebbe pro­cu­rato da solo. Una giu­sti­fi­ca­zione che, incre­di­bil­mente, con­ti­nua a fun­zio­nare quasi sem­pre in un Paese dove la tortura sarà «pec­cato mor­tale» ma non è reato.
Alberti, classe 1971, viene arre­stato dai cara­bi­nieri l’11 marzo 2010 davanti al Cafè Tif­fany, un bar di Cerea, comune in pro­vin­cia di Verona, dove l’uomo risiede. Quat­tro ore dopo Alberti giunge al car­cere di Verona con tre costole frat­tu­rate e un ema­toma al testi­colo sini­stro, secondo quanto rico­struito dai giu­dici euro­pei. I giu­dici ita­liani invece si sono limi­tati, secondo la Cedu, ad accer­tare che durante la fase dell’arresto non ci sia stato un uso ille­git­timo della forza da parte dei cara­bi­nieri. Ma senza pro­ce­dere con «un’inchiesta effet­tiva» per veri­fi­care i fatti, par­tendo dalla denun­cia di mal­trat­ta­menti pre­sen­tata da Alberti e da quelle lesioni che ad occhi euro­pei – e chissà per­ché no a quelli ita­liani – appa­iono incom­pa­ti­bili sia con una con­dotta legale dei cara­bi­nieri che con la tesi, soste­nuta dai mili­tari, che Alberti se le fosse inflitte da solo.
E così ancora una volta l’Italia è stata con­dan­nata per la vio­la­zione dell’articolo 3 della Con­ven­zione euro­pea dei diritti umani che proi­bi­sce i trat­ta­menti inu­mani o degra­danti. Lo Stato dovrà risar­cire Alberti con 15 mila euro per danni morali.
Eppure, mal­grado per­fino l’appello di Papa Fran­ce­sco che dome­nica scorsa durante l’Angelus ha defi­nito la tortura «un pec­cato mor­tale» (domani si cele­bra la Gior­nata inter­na­zio­nale per le vit­time della tortura), l’Italia con­ti­nua a rima­nere tra quei pochi Paesi al mondo che, a 30 anni dalla rati­fica della rela­tiva Con­ven­zione Onu, non con­tem­pla que­sto reato nell’ordinamento penale. Mal­grado sia anno­ve­rata tra quei 79 Paesi in cui que­sta pra­tica inu­mana è stata messa in atto durante l’anno in corso (diven­tano 141 i Paesi, se si con­si­de­rano gli ultimi cin­que anni). «Recen­te­mente – ha ricor­dato ieri Ales­sio Scan­durra, dell’Associazione Anti­gone, inter­vi­stato da Radio Vati­cana – il giu­dice che ha seguito un epi­so­dio di mal­trat­ta­menti da parte di agenti della poli­zia peni­ten­zia­ria nei con­fronti di dete­nuti, nel car­cere di Asti, è giunto al pro­scio­gli­mento degli impu­tati affer­mando che quelle con­dotte si con­fi­gu­ra­vano come tortura, ma non esi­stendo in Ita­lia que­sto reato non era pos­si­bile pro­ce­dere».
Roma infatti è arri­vata solo a metà del 2012 a rati­fi­care il Pro­to­collo della Con­ven­zione Onu sulla tortura e il dise­gno di legge che è stato appro­vato il 5 marzo scorso al Senato non è ancora pas­sato all’esame della Camera. Un testo che però si allon­tana dagli stan­dard inter­na­zio­nali per­ché con­fi­gura la tortura come reato gene­rico — ossia impu­ta­bile a qua­lun­que cit­ta­dino nei con­fronti di chiun­que altro — e non spe­ci­fico di pub­blico uffi­ciale. È pre­vi­sta solo una spe­ci­fica aggra­vante (da bilan­ciare even­tual­mente con le atte­nuanti) se a com­met­tere il reato è un inca­ri­cato di pub­blico ser­vi­zio nell’esercizio delle sue funzioni.

Così l’hanno voluta certi sin­da­cati di poli­zia, agendo con­tro gli inte­ressi delle stesse forze dell’ordine sane, e così l’hanno appro­vata in Senato. Per tutti, comun­que, favo­re­voli o con­trari a que­sto testo di legge, se non altro è un grande passo avanti. Manca solo il sì defi­ni­tivo della Camera. Il mondo civile lo sta aspettando.



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