Il diritto all’oblio (che non c’è)

Il diritto all’oblio (che non c’è)

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Non bastavano le proteste dei giornali e la confusione su metodi e risultati. A rivelare la fragilità del « diritto all’oblio secondo Google » si è messo anche un programmatore del New Jersey, Afaq Tariq, il quale — con l’aiuto di alcuni sviluppatori conosciuti online — ha appena lanciato «Hidden from Google», sito che raccoglie e ordina i risultati rimossi sul motore di ricerca.
A partire da giugno, in seguito a una sentenza della Corte di Giustizia europea che ha imposto all’azienda l’obbligo di rimuovere link a informazioni ritenute non pertinenti dai soggetti citati, Google dà la possibilità agli utenti di richiedere la deindicizzazione dei risultati che li riguardano qualora le informazioni risultino «inadeguate, obsolete o irrilevanti». Oltre a non aver fornito informazioni sui parametri di cancellazione, Google avrebbe addirittura ammesso, tramite il portavoce europeo dell’azienda Peter Barron (fonte Daily Telegraph ), di non essere a proprio agio nel doppio ruolo di «giudice e giuria» ma di «dover rispettare la legge».
La rimozione dei link riguarda solo il motore di ricerca della nazione di riferimento: la notizia resta dunque leggibile sia sul sito «originale» sia sui motori Google degli altri Paesi. È questo che ha permesso ad Afaq Tariq di costruire la piattaforma dei «dati censurati». «Hidden from Google» ha un approccio partecipativo e aperto, ovvero chiunque sia in grado di recuperare una voce cancellata con il relativo link, può includerlo nell’elenco compilando un modulo. Lo scopo, si legge sul sito, è «tenere traccia dell’attività di censura su Internet. Spetta all’utente decidere se le nostre libertà vengono rispettate o violate dalle recenti sentenze europee».
Leggendo gli articoli presenti sulla piattaforma, si realizza quanto sia labile il confine tra diritto di cronaca e diritto alla privacy: perché mai Google ha accettato la richiesta di oblio del portoghese Carlos Silvino, condannato per abuso su minori con una sentenza di 18 anni? Oppure quella di Robert Daniels Dwyer, esperto borseggiatore di Oxford? Di sicuro, la rimozione di molti risultati — denunciata e documentata da Tariq come dai molti giornali che vedono sparire i propri articoli da Google — sta avendo conseguenze boomerang per i richiedenti oblio.
C’è chi tira in ballo «l’effetto Streisand», espressione che si riferisce al tentativo della famosa attrice e cantante di bloccare nel 2003 la pubblicazione di immagini della sua villa di Malibu: un’azione che ebbe come risultato un’esplosione dell’attenzione pubblica sulla notizia. Chi ignorava, ad esempio, che Adam Osborne, fratello del ministro delle finanze inglese George, si fosse a un certo punto convertito all’Islam, lo ha appreso nei giorni scorsi, con grande clamore, grazie alle proteste del Daily Express , autore dello scoop, contro Google.
Oltre a dimostrare la debolezza di una decisione che — affidando al giocatore il ruolo di arbitro nella delicata partita della privacy online — ha creato le condizioni per il «pasticcio» di Google, la vicenda dimostra , ancora una volta, quanto sia illusoria l’idea di poter rimuovere le nostre tracce online.
Nel novembre del 2012, l’Agenzia europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione (Enisa), istituzione dell’Unione europea, ha pubblicato uno studio in materia. I risultati, recapitati alla commissione che ha emanato la sentenza del 13 maggio, parlano chiaro: «Una volta che l’informazione è stata pubblicata, è di fatto impossibile prevenire o vietare — da un punto di vista tecnico — la creazione di copie non autorizzate. In un sistema aperto come internet il diritto all’oblio non può essere tecnicamente esercitato». Parole che ricordano le dichiarazioni del capo tecnologico del colosso di sicurezza informatica McAfee, Raj Samani, che in un’intervista all’edizione inglese dell’Huffington Post ha detto: «Non c’è nulla di permanente quanto un tatuaggio digitale. E il tuo tatuaggio digitale si disegna ogni volta che fai un tweet, un post o che mandi una mai. Rimuoverlo è doloroso, costoso e lascia cicatrici».
Serena Danna



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