Gaza, pista egiziana per negoziare il cessate il fuoco

Gaza, pista egiziana per negoziare il cessate il fuoco

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GERUSALEMME — Trentaquattro minuti di discorso per celebrare la guerra combattuta dagli egiziani contro gli israeliani quarantuno anni fa, neppure una parola per quella che stava cominciando nelle stesse ore. Otto giorni fa Abdel Fattah al Sisi, il generale diventato presidente, ha tenuto un discorso alla nazione dal palazzo al Cairo e ha scelto di non lanciare un appello alla calma, di non abbozzare una condanna dei bombardamenti ordinati dal premier Benjamin Netanyahu contro la Striscia di Gaza.
Le trattative per arrivare a un cessate il fuoco non possono ignorare quel silenzio. Fino a domenica al Sisi e il suo capo dell’intelligence, il generale Mohammed Farid al-Tohamy, hanno fatto da testimoni soddisfatti: i Fratelli Musulmani sono stati dichiarati illegali in Egitto e Hamas di quel movimento è emanazione, gli ufficiali considerano i fondamentalisti in parte responsabili del caos in Sinai. Così hanno lasciato sbrigliarsi l’offensiva israeliana con poche obiezioni. Le pressioni dagli Stati Uniti e l’evidenza che solo l’Egitto può cercare di mediare avrebbero spinto il presidente a intervenire: adesso propone un cessate il fuoco a partire dalle 9 di oggi (le 8 in Italia), mentre John Kerry, segretario di Stato americano, arriva al Cairo e da lì potrebbe ripartire con le condizioni poste da Hamas per mantenere la tregua — se dovesse entrare in vigore — e fermare i lanci di missili contro le città israeliane: dall’inizio dello scontro hanno sparato un migliaio di proiettili, ieri due ragazzine beduine sono state ferite gravemente nel deserto del Negev. Tra gli sforzi diplomatici, quello di Federica Mogherini, la ministra degli Esteri italiana, che arriva oggi in Israele e visiterà anche Ramallah. Washington non ha per ora ostacolato i raid dell’aviazione (oltre 180 morti tra i palestinesi, la maggior parte civili), si oppone però a un’invasione di terra. I capi del movimento fondamentalista — assicura una fonte militare israeliana ai giornali e alle televisioni locali — sono pronti a ritornare alla calma stabilita dopo gli otto giorni di guerra di oltre un anno e mezzo fa. Mushir al Masri, deputato e portavoce dei fondamentalisti, elenca da Gaza le richieste: fine dell’embargo imposto dal 2006, apertura del valico di Rafah con l’Egitto, scarcerazione dei 56 membri del movimento riarrestati da Tsahal durante i raid in Cisgiordania dopo il sequestro-omicidio dei tre ragazzi israeliani (i palestinesi erano stati rilasciati nello scambio per il caporale Gilad Shalit).
È improbabile che il governo israeliano accetti di togliere il blocco economico (su questo punto potrebbe sopperire il Qatar con milioni di dollari in aiuto ad Hamas), sulla questione dei detenuti sarebbe più flessibile. L’apertura del valico di Rafah dipende invece dagli egiziani, che vogliono sfruttare l’occasione per indebolire il dominio di Hamas sulla Striscia e chiedono che il posto di frontiera venga affidato alle forze comandate da Abu Mazen. Il presidente potrebbe così ritornare in gioco a Gaza: ne ha perso il controllo nel 2007 dopo un colpo militare degli estremisti.
Netanyahu subisce da settimane la pressione dei ministri più bellicosi perché dia il via libera all’invasione. Ieri Naftali Bennett, leader del partito dei coloni e ministro dell’Economia, ha lasciato per la prima volta capire che accetterebbe un cessate il fuoco senza lasciare la coalizione come aveva minacciato: «Anche se ho suggerito altri piani operativi». Avigdor Liberman, il ministro degli Esteri, spinge per rioccupare Gaza «e disfarci una volta per tutte di Hamas». Il premier e Moshe Yaalon, il ministro della Difesa, cercano una formula che obblighi Hamas a consegnare il suo arsenale di razzi. Oggi Netanyahu riunisce il gabinetto di sicurezza per esaminare la proposta egiziana per una tregua. Il premier sarebbe favorevole ad accettarla.
Davide Frattini



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