Ci sembrava una mancia offensiva, quella somma, meno della liquidazione di un manager, quota infinitesimale dei profitti miliardari accumulati quando già si sapeva che lo stabilimento intorno a sé spargeva una malapolvere mortale. Avremmo fatto meglio a incassarli — sporchi, maledetti e subito — quei soldi, da un signore svizzero resosi irraggiungibile, dotato di ottimi avvocati e potere extraterritoriale abbastanza per rendersi indisponibile anche solo a un interrogatorio? Davvero tocca rassegnarsi alla giustizia del più forte? Il fatto è che a Casale e nelle verdi colline del Monferrato ne abbiamo visti morire troppi di mesotelioma pleurico, rapiti da una malattia che sopraggiunge improvvisamente colpendo a casaccio fra coloro che anni prima avevano respirato quelle fibre cancerogene, sparse dovunque, a riempire i sottotetti o a imbiancare l’aia della cascina.
LA strage è fatta di nomi e di volti familiari, non c’è abitante di Casale Monferrato che non ne custodisca almeno uno cui rispondere. Bisognava incassare la mancia e rassegnarsi? Cosa avrebbero detto del “patto col diavolo”, della transazione Schmidheiny, il mio collega Marco, direttore del giornale locale; o il mio formidabile amico Renzo, vignaiolo, alpino e maestro nella caccia al cinghiale? Come avremmo potuto guardare ancora in faccia Romana Blasotti Pavesi che ha perso un marito, una sorella, una figlia e due nipoti? Potrei continuare con migliaia di nomi… La dignità esemplare con cui i familiari delle vittime hanno costruito un’associazione rispettosa del diritto, fiduciosa nella giustizia, capace diassumere il ruolo di capofila internazionale nella campagna per la messa fuorilegge dell’amianto, ieri ha subito un’offesa che ci fa sentire, come minimo, ingenui. Umiliati.
Possibile che si sia svegliato all’ultimo minuto prima della sentenza decisiva il procuratore generale della Cassazione, Francesco Iacoviello, nel sostenere in punta di diritto che un disastro ambientale non si consumerebbe a lungo nel tempo? Davvero può fermarsi al 1986 la colpa dell’imprenditore beneficiato di ignominiosa prescrizione, quando la scia di morte ha trascinato via con sé migliaia di vittime nei ventotto anni successivi, e ancora non si arresta? Non suona forse macabro addebitare alle pubbliche istituzioni la responsabilità successiva, riguardante il divieto all’uso dei materiali velenosi e la mancata bonifica, scagionando chi per convenienza economica, pur sapendo, non fermò subito la produzione?
Schmidheiny ha assoldato società di pubbliche relazioni per presentarsi come ambientalista coscienzioso, vittima di una giustizia italiana prevenuta. Intanto sfuggiva a ogni confronto con il territorio violentato dalla sua azienda. Sarebbe stato lecito aspettarsi come minimo da parte sua un cospicuo finanziamento alla ricerca medico-scientifica che tuttora annaspa, povera di fondi, nel tentativo di trovare una cura per il mesotelioma. Invece ha tentato solo il trucco meschino, lo scambio utilitaristico giocato a ridosso della prima sentenza di Torino, quando ha intuito la mala parata: una manciata di soldi in cambio dell’immunità. Cavarsela a buon mercato, di fronte a magistrati che i suoi depistaggi non erano riusciti a fermare. Ci ha pensato la Cassazione, infine. I calcoli di Schmidheiny sulla malagiustizia italiana erano ben riposti, purtroppo. La legge del più forte ha prevalso sulla sofferenza di una comunità civile che per anni ha continuato a inalare le fibre cancerogene della sua Eternit. Nelle alte sfere multinazionali, quelle particelle affilate che lacerano i polmoni non arrivano mai. Il disastro per lui si è fermato al 1986, prescritto. Quel che è successo dopo sono affari del Monferrato. Fesso chi ha creduto, in Italia e nel mondo, che il Codice penale non potesse ignorare gli effetti ritardati dell’amianto.