Dal patto Usa-Cina al fracking 2014, l’anno del sogno possibile

Dal patto Usa-Cina al fracking 2014, l’anno del sogno possibile

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MI APPRESTAVO a scrivere un editoriale che cominciava così: quando scriveranno la storia della risposta del pianeta ai cambiamenti climatici, il 2014 potrebbe essere visto come il momento in cui l’equilibrio tra azione e negazione si è finalmente rotto in favore dell’azione. E questo grazie alla convergenza di quattro forze di enorme portata: San Paolo del Brasile è diventata arida, la Cina e gli Stati Uniti sono diventati verdi, i pannelli solari sono diventati economici.
Ma prima che potessi proseguire con il mio pezzo, il prezzo del petrolio ha toccato nuovi minimi e l’esperto di economia energetica Phil Verleger mi ha scritto dicendo: «Il fracking ( la tecnica della fratturazione idraulica per estrarre gas naturale e petrolio dalle rocce di scisto, ndr ) è una rivoluzione tecnologica comparabile all’introduzione del personal computer. Produttori a basso costo come i sauditi risponderanno alla minaccia rappresentata da questo incremento dell’offerta tenendo bassi i prezzi», nella speranza che il prezzo del greggio scenda al di sotto del costo del fracking per buttare fuori dal mercato una parte di quei produttori americani che sfruttano questa nuova tecnica. Al contempo, ha aggiunto, una situazione prolungata di prezzi bassi per petrolio e gas naturale otterrebbe l’effetto di “ritardare” gli sforzi (favoriti da un prezzo alto del petrolio) per vendere autoveicoli più ecologici e che consumano meno, e di rallentare il passaggio (favorito da un prezzo alto del gas) a una generazione di energia elettrica più ecosostenibile.
Insomma, l’incipit del mio editoriale ora dovrebbe essere così: quando scriveranno la storia della risposta del pianeta ai cambiamenti climatici, il 2014 sicuramente sarebbe stato visto come il momento in cui il dibattito sul clima aveva avuto termine. Purtroppo, però, il prezzo mondiale del petrolio è precipitato, rendendo meno probabile che il mondo faccia quello che secondo l’Aie dovremmo fare, cioè lasciare sottoterra la maggior parte delle riserve mondiali di petrolio e gas naturale. Come l’Aie ha osservato, «di qui al 2050 si potrà consumare non più di un terzo delle riserve dimostrate di combustibili fossili», se non si vuole rischiare di superare quella soglia dei 2 gradi di aumento della temperatura media oltre la quale, secondo gli scienziati, si metterebbero in moto processi sconvolgenti di scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello dei mari e fenomeni meteorologici di portata estrema.
C’è un terzo incipit possibile per questo mio editoriale? Sì, ed è un incipit straordinario che aspetta solo di essere scritto. Tutto quello che serve è la volontà politica giusta. Di che si tratta?
Torniamo al primo incipit. Una delle ragioni per cui mi ero convinto che la bilancia stesse pendendo con decisione dalla parte dell’azione era una notizia rilanciata dalla Bbc da San Paolo del Brasile: «Nella più grande città del Brasile una stagione secca senza precedenti e una domanda di acqua in costante aumento hanno prodotto una pesantissima siccità». Quando una regione metropolitana di 20 milioni di abitanti rimane a secco a causa della distruzione delle sue foreste naturali e dei suoi bacini idrografici, sommata a un evento meteorologico estremo reso ancora più pesante, secondo gli scienziati, dai cambiamenti climatici, ostinarsi a negare l’evidenza diventa impossibile.
Poi c’è stato quel patto di importanza storica del 12 novembre fra il presidente americano Obama e il presidente cinese Xi Jinping, che impegna gli Usa a ridurre le loro emissioni di anidride carbonica del 26-28 per cento rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025, e che impegna la Cina a raggiungere il picco delle sue emissioni nel 2030 o anche prima. La Cina si è impegnata anche a sviluppare, sempre entro il 2030, fra gli 800 e i 1.000 gigawatt in più di energia pulita, il che darà una grossa spinta all’innovazione nel campo delle energie pulite e contribuirà a fare per il solare, l’eolico e le batterie quello che Pechino ha fatto per le scarpe da tennis, cioè ridurre significativamente i prezzi a livello mondiale.
Ma che cosa succede se Verleger ha ragione, se il fracking, come successe con l’introduzione del pc che fece precipitare il costo dei calcolatori elettronici, finisse per inondare il pianeta di petrolio sempre più a buon mercato, ostacolando la riduzione delle emissioni? C’è una via d’uscita da questo dilemma. Bisogna prendere una scelta politica difficile che però porterà benefici al clima: alzare l’accisa sulla benzina.
«Le strade americane si stanno sgretolando», dice Verleger. «Le infrastrutture cadono a pezzi. Le nostre ferrovie sono una barzelletta ». Nel frattempo il prezzo della benzina alla pompa sta scendendo verso i 2,5 dollari al gallone (il livello medio nazionale più basso dal 2009) e i consumatori corrono a comprare Suv e camion. La «soluzione chiara», dice Verleger, è fissare un prezzo per la benzina in America, per esempio 3,5 dollari al gallone, e poi tassare qualsiasi prezzo inferiore a 3,5 dollari fino ad arrivare a quel livello. Gli europei dovrebbero fare qualcosa di simile. «E poi cominciamo a spendere immediatamente i miliardi per le infrastrutture. Con una tassa di 1 dollaro per gallone, il governo Usa potrebbe intascare circa 150 miliardi di dollari l’anno», dice. «Il moltiplicatore degli investimenti darebbe un’ulteriore spinta all’economia si aamericana che europea». E allora: un modo per fare del 2014 un anno realmente decisivo esiste: ma solo i leader politici possono scrivere quell’incipit.
© 2-014 New York Times News Service (Traduzione di Fabio Galimberti)


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