South Stream, Usa e getta

South Stream, Usa e getta

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«La Rus­sia per ora è costretta a riti­rarsi dal pro­getto South Stream, a causa della man­canza di volontà della Ue di soste­nerlo e del fatto che a tutt’oggi non ha ancora rice­vuto il per­messo della Bul­ga­ria a far pas­sare il gasdotto sul pro­prio ter­ri­to­rio»: così il pre­si­dente russo Putin ha annun­ciato (mar­tedì sera, tardi per noi) la can­cel­la­zione del pro­getto South Stream, il gasdotto che avrebbe dovuto por­tare il gas russo nell’Unione euro­pea attra­verso un cor­ri­doio ener­ge­tico meri­dio­nale, senza pas­sare dall’Ucraina.

Così, scri­vono tutti, Mosca «schiaf­feg­gia l’Europa». In realtà è Washing­ton che dà un altro forte schiaf­fone all’Europa, bloc­cando un pro­getto da 16 miliardi di euro che avrebbe potuto essere di grande impor­tanza eco­no­mica per i paesi della Ue, a par­tire dall’Italia dove avrebbe dovuto essere costruito il ter­mi­nale del gasdotto.

Per capire che cos’è acca­duto, occorre riper­cor­rere la sto­ria del South Stream. Il pro­getto nasce dall’accordo di par­te­na­riato stra­te­gico, sti­pu­lato dalla com­pa­gnia sta­tale russa Gaz­prom e dall’italiana Eni nel novem­bre 2006, durante il governo Prodi II. Nel giu­gno 2007 il mini­stro per lo svi­luppo eco­no­mico, Pier­luigi Ber­sani, firma con il mini­stro russo dell’industria e dell’energia il memo­ran­dum d’intesa per la rea­liz­za­zione del South Stream. Il pro­getto pre­vede che il gasdotto sarà com­po­sto da un tratto sot­to­ma­rino di 930 km attra­verso il Mar Nero (in acque ter­ri­to­riali russe, bul­gare e tur­che) e da uno su terra attra­verso Bul­ga­ria, Ser­bia, Unghe­ria, Slo­ve­nia e Ita­lia fino a Tar­vi­sio (Udine). Nel 2012 entrano a far parte della società per azioni che finan­zia la rea­liz­za­zione del tratto sot­to­ma­rino anche la tede­sca Win­ter­shall e la fran­cese Edf con il 15% cia­scuna, men­tre l’Eni (che ha ceduto il 30%) detiene il 20% e la Gaz­prom il 50%. La costru­zione del gasdotto ini­zia nel dicem­bre 2012, con l’obiettivo di avviare la for­ni­tura di gas entro il 2015.

Nel marzo 2014 la Sai­pem (Eni) si aggiu­dica un con­tratto da 2 miliardi di euro per la costru­zione della prima linea del gasdotto sottomarino.

Nel frat­tempo, però, scop­pia la crisi ucraina e gli Stati uniti pre­mono sugli alleati euro­pei per­ché ridu­cano le impor­ta­zioni di gas e petro­lio russo. Primo obiet­tivo sta­tu­ni­tense è impe­dire la rea­liz­za­zione del South Stream.

A tale scopo Washing­ton eser­cita una cre­scente pres­sione sul governo bul­garo per­ché bloc­chi i lavori del gasdotto. Prima lo cri­tica per aver affi­dato la costru­zione del tratto bul­garo a un con­sor­zio di cui fa parte la società russa Stroy­tran­sgaz, sog­getta a san­zioni Usa.

Quindi l’ambasciatrice ame­ri­cana a Sofia, Mar­cie Ries, avverte gli uomini d’affari bul­gari di evi­tare di lavo­rare con società sog­gette a san­zioni da parte degli Usa. Da’ una valida mano a Washing­ton il pre­si­dente della Com­mis­sione euro­pea, Josè Manuel Bar­roso, che annun­cia l’apertura di una pro­ce­dura Ue con­tro la Bul­ga­ria per pre­sunte irre­go­la­rità negli appalti del South Stream.

Il momento decisivo è quando lo scorso giugno arriva a Sofia il senatore Usa John McCain

Il momento deci­sivo è quando lo scorso giu­gno arriva a Sofia il sena­tore Usa John McCain, che incon­tra il pre­mier bul­garo Pla­men Ore­shar­ski tra­smet­ten­do­gli gli ordini di Washing­ton. Subito dopo Ore­shar­ski annun­cia il blocco dei lavori del South Stream, in cui la Gaz­prom ha già inve­stito 4,5 miliardi di dollari.

Con­tem­po­ra­nea­mente la com­pa­gnia sta­tu­ni­tense Che­vron ini­zia le per­fo­ra­zioni in Polo­nia, Roma­nia e Ucraina per rica­vare gas da sci­sti bitu­mi­nosi, attra­verso la tec­nica della frat­tu­ra­zione idrau­lica che si attua immet­tendo negli strati roc­ciosi pro­fondi getti d’acqua e sol­venti chi­mici ad alta pressione.

Una tec­nica estre­ma­mente dan­nosa per l’ambiente e la salute, soprat­tutto per l’inquinamento delle acque sot­ter­ra­nee. Il pro­getto di Washing­ton di sosti­tuire al gas natu­rale russo, impor­tato dalla Ue, quello rica­vato da sci­sti bitu­mi­nosi in Europa e negli Stati uniti, è un vero e pro­prio bluff, sia per gli alti costi che per i danni ambien­tali e sani­tari della tec­nica di estra­zione. E già in Polo­nia e in Roma­nia diverse comu­nità locali si ribellano.

In seguito al blocco del South Stream, ha annun­ciato Putin, la Rus­sia è costretta a «rio­rien­tare le for­ni­ture di gas». Aumen­te­ranno quelle alla Tur­chia con il gasdotto Blue Stream. Aumen­te­ranno soprat­tutto quelle verso la Cina. La Gaz­prom le for­nirà, entro il 2018, 38 miliardi di metri cubi di gas all’anno: circa un quarto di quello che for­ni­sce oggi all’Europa. Avva­len­dosi anche di inve­sti­menti cinesi pre­vi­sti in 20 miliardi di dol­lari, Mosca pro­getta di poten­ziare l’oleodotto tra la Sibe­ria orien­tale e il Paci­fico, affian­can­dolo con un gasdotto di 4000 km per rifor­nire la Cina. Pechino è inte­res­sata a inve­stire anche in Cri­mea, in par­ti­co­lare nella pro­du­zione ed espor­ta­zione di gas natu­rale liquefatto.

A per­dere sono i paesi della Ue: solo la Bul­ga­ria dovrà rinun­ciare a diritti di tran­sito nell’ordine di 500 milioni di dol­lari annui.



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