Tor­tura, in Senato vince il Sap

Tor­tura, in Senato vince il Sap

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«Se devo pren­dere per il collo un delin­quente, lo prendo. Se cade e si sbuc­cia un ginoc­chio, sono cazzi suoi». Il lin­guag­gio è quello che è, tipico del leghi­sta Mat­teo Sal­vini che il 25 giu­gno scorso aveva sin­te­tiz­zato così la pro­te­sta del Sap, il sin­da­cato auto­nomo di poli­zia tanto con­ser­va­tore quanto mino­ri­ta­rio all’interno delle forze dell’ordine.

Ma il con­cetto è stato fatto pro­prio, né più né meno, dall’intera com­mis­sione Giu­sti­zia del Senato — Pd in testa — che ieri all’unanimità ha annul­lato di fatto le modi­fi­che appor­tate alla Camera al testo della legge sulla tor­tura. In sostanza, la fat­ti­spe­cie del reato e le pene pre­vi­ste tor­nano alla ste­sura appro­vata in prima let­tura dallo stesso Senato il 5 marzo 2014, e si allon­ta­nano sem­pre più dai trat­tati Onu pure rati­fi­cati dall’Italia.

In poche parole, dimi­nui­scono le san­zioni, e il reato — che pure rimane comune e non pro­prio di pub­blico uffi­ciale, come pre­scritto dalla Con­ven­zione di New York e come chie­de­vano Amne­sty Inter­na­tio­nal e altre asso­cia­zioni — diventa ancora più gene­rico. Affin­ché venga con­si­de­rata tor­tura, per esem­pio, la vio­lenza e la minac­cia deve essere rei­te­rata. Per essere crudi, una testa sbat­tuta con­tro un muro una volta non è tor­tura. Spa­ri­scono per­fino, tra le fina­lità elen­cate per defi­nire meglio la fat­ti­spe­cie, quelle discri­mi­na­to­rie etni­che, reli­giose o ses­suali. Così come spa­ri­sce quella locu­zione — «per vin­cere una resi­stenza» — che tanto aveva irri­tato certa polizia.

«Biso­gnava pur tenere conto dei rilievi fatti dalle forze dell’ordine per­ché l’uso della forza non è solo facol­ta­tivo ma è d’obbligo durante atti legit­timi come l’arresto», ha detto al mani­fe­sto il rela­tore del testo, Enrico Buemi (Auto­no­mie), che si è detto «sod­di­sfatto» del risul­tato anche se ini­zial­mente «avevo pro­po­sto un reato spe­ci­fico per pub­blico ufficiale».

Ora, se l’Aula di Palazzo Madama con­fer­merà le modi­fi­che appro­vate ieri dalla com­mis­sione, il testo dovrà tor­nare di nuovo all’analisi dei depu­tati, con­ti­nuando così un rim­pallo tra le due camere che dura dal marzo 2013 e che molto pro­ba­bil­mente finirà con l’affossare la legge, come vuole certa poli­zia (non tutta), e come già avve­nuto nel corso della scorsa legi­sla­tura. E mostrando così ancora una volta l’equilibrismo del pre­mier Mat­teo Renzi che solo tre mesi fa esor­tava a non avere paura dell’introduzione della tor­tura nel nostro ordi­na­mento. «Anzi — aveva detto il premier/segretario — si deve avere paura che non ci sia».

Il testo appro­vato ieri dalla Com­mis­sione di Palazzo Madama pre­vede pene che vanno da 3 a 10 anni di car­cere (e non più, come nella ver­sione licen­ziata dalla Camera, da 4 a 10) per «chiun­que con rei­te­rate vio­lenze e minacce gravi (nella ver­sione dei depu­tati era diven­tata «con vio­lenza o minac­cia»), ovvero agendo con cru­deltà, cagiona acute sof­fe­renze fisi­che o un veri­fi­ca­bile trauma psi­chico (non più solo «sof­fe­renza psi­co­lo­gica grave» per­ché «non accer­ta­bile a distanza di tempo» secondo i sena­tori della com­mis­sione) a una per­sona pri­vata della libertà per­so­nale o affi­data alla sua custo­dia, vigi­lanza, con­trollo, cura o assi­stenza, ovvero si trovi in con­di­zioni di mino­rata difesa».

Rimane dun­que inal­te­rata quest’ultima frase che, secondo i depu­tati di Sel, rischiava con la sua ambi­guità di esclu­dere auto­ma­ti­ca­mente situa­zioni come quella veri­fi­ca­tasi all’interno della scuola Diaz durante il G8 di Genova, nella quale le vit­time non erano sot­to­po­ste a stato di fermo né a custo­dia degli agenti autori del massacro.

Rimane l’aggravante se il reato è com­messo da pub­blico uffi­ciale ma la pena mas­sima pre­vi­sta (la minima è 5 anni) scende da 15 a 12 anni di car­cere. Vice­versa, è stato respinto l’emendamento del sena­tore Ser­gio Lo Giu­dice (Pd) che abo­liva giu­sta­mente l’ergastolo pre­vi­sto in caso di morte volon­ta­ria della vit­tima. «Non sono affatto sod­di­sfatto di que­ste modi­fi­che — ha con­fes­sato Lo Giu­dice al mani­fe­sto — anche se ho dovuto votare come il mio gruppo, come pre­scritto dal vin­colo in com­mis­sione: la tor­tura è un reato spe­ci­fico com­messo da chi rap­pre­senta lo Stato».

Infine, un passo indie­tro nell’evoluzione demo­cra­tica anche per quanto riguarda i respin­gi­menti o le espul­sioni: nel testo della Camera uno stra­niero non poteva essere rim­pa­triato verso uno Stato dove avrebbe potuto essere oggetto di per­se­cu­zione, ma per la com­mis­sione Giu­sti­zia in que­sto modo sarebbe stato impe­dito qual­siasi respin­gi­mento. Ecco per­ciò che l’inammissibilità del rim­pa­trio è stata vin­co­lata al caso che «esi­stano fon­dati motivi di rite­nere che la per­sona rischi di essere sot­to­po­sta a tortura».

«Ma sic­come i respin­gi­menti si fanno alla fron­tiera — spiega Buemi al mani­fe­sto — gli agenti potranno attin­gere ad un elenco di Stati dove, secondo i report inter­na­zio­nali, si pra­tica abi­tual­mente la tor­tura e la vio­la­zione dei diritti umani». Elenco dal quale ovvia­mente manca l’Italia. Almeno finora.



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