Crescita cinese a +7,3% la peggiore dal 1991

Crescita cinese a +7,3% la peggiore dal 1991

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Sarà stato perché ieri gli operatori di Wall Street sono rimasti a casa, complice la chiusura dei mercati finanziari statunitensi per la festività del Labour Day. Sarà stato perché gli investitori hanno già scontato – nelle quotazioni – il rallentamento dell’economia cinese: non per nulla, le borse di Shanghai e di Shenzen hanno perso circa il 40 per cento della loro capitalizzazione dalla fine di giugno.
Con tutta probabilità, sono state queste le due principali ragioni per cui la piazze europee, ieri, non sono crollate dopo la notizia della revisione al ribasso dell’economia cinese. Le autorità di Pechino hanno corretto al 7,3% dal 7,4% la crescita nel 2014. A preoccupare gli investitori, però, non è tanto la differenza minima quanto il fatto che si tratta del ritmo di crescita annuale più basso degli ultimi 24 anni. Il governo- nella sua comunicazione ufficiale – ha attribuito il calo «a un rallentamento dell’edilizia, un indebolimento della domanda interna e alle difficoltà delle esportazioni».
Un bollettino ben poco favorevole agli acquisti. Ma le Borse, in apertura, hanno preferito recuperare parte delle clamorose perdite della seduta di venerdì, quando il Vecchio Continente ha bruciato 216 miliardi.
Un “rimbalzo tecnico”, secondo il parere diffuso tra gli operatori, che ha portato le principali piazze a guadagnare anche un punto percentuale. Salvo poi ritracciare, pur chiudendo in terreno più che positivo: Milano ha segnato un rialzo finale dello 0,7%, in linea con Francoforte. Londra ha terminato gli scambi a più 0,52% e Parigi a più 0,59%.
Ma l’attenzione degli operatori è già rivolta a quanto accadrà il prossimo 17 settembre, quando il board della Federal Reserve, la banca centrale statunitense, dovrebbe prendere una decisione sul possibile rialzo dei tassi di interesse.
Non ci fosse stata lo scoppio della bolla delle Borse cinesi, la possibilità di un aumento del costo del denaro sarebbero state molto alte. Ma ora la situazione è più incerta. Da un lato, l’economia Usa è migliorata, sono aumentati i posti di lavoro (il vero nodo dolente) e la crescita rimane sostenuta. Dall’altra, il rallentamento dell’economia cinese potrebbe avere una serie di ripercussioni ancora difficilmente valutabili. Per cui la maggior parte degli esperti e degli economisti ora propende per lo “status quo”, con la Fed che prenderà tempo per valutare meglio eventuali sviluppi della situazione a livello globale.
Gli elementi di cui tener conto non riguardano solo la Cina. Altre incognire arrivano, per esempio, dal prezzo del petrolio, ieri tornato a scendere negli Usa sotto i 45 dollari.


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