In Iraq altre 50 fosse comuni dell’Isis L’inviato Onu: «Questo è genocidio»

Era già successo dopo la presa di Sinjar, nell’agosto del 2014, capita ora dopo la caduta di Ramadi, strappata in aprile ai miliziani. Quando i soldati del Califfato si ritirano, emergono le «prove dei crimini atroci». Stupri, torture, abusi. «Sono crimini contro l’umanità, crimini di guerra. È genocidio», ha detto sbilanciandosi il portavoce delle Nazioni Unite. Kubis così fa propria la richiesta della minoranza yazida, che da tempo esercita pressioni sul Palazzo di Vetro e soprattutto sulle istituzioni europee affinché riconoscano il loro popolo come vittima di questo crimine.
Ma per la legge e per i processi c’è tempo. Quel che conta è che ancora oggi la maggioranza degli sfollati iracheni e yazidi da un lato e dei profughi siriani dall’altro preferisce rimanere nelle tende dei campi. Non importa che i loro villaggi siano stati liberati. «Isis è ancora troppo vicina alle nostre case», è la risposta. In molti sperano di raggiungere l’Europa. Intanto gli aiuti elargiti dai Paesi del Golfo stanno finendo. Nei campi manca l’elettricità, i blackout sono continui e il prezzo del petrolio fatica a risalire. La convivenza tra diversi gruppi è sempre più difficile.
E’ stato lo stesso inviato delle Nazioni Unite ad avvertire delle conseguenze che la crisi politica irachena può avere sulla situazione umanitaria, «una delle peggiori di questi anni con 10 milioni di persone che necessitano di aiuti» e con «altri 2 milioni di sfollati che potrebbero aggiungersi entro la fine dell’anno». A questo bisogna aggiungere che «solo un quarto degli 861 milioni di dollari richiesti per l’emergenza sono stati svincolati».
A preoccupare è lo scenario post Isis. Sconfiggere militarmente lo Stato Islamico e cacciarlo da Mosul e dall’Iraq, secondo Kubis, non basta. «L’estremismo trae beneficio dall’instabilità politica e dalla mancanza di riforme», ha spiegato Kubis.
Lo spettro è la paralisi del Parlamento di Bagdad. II campanello d’allarme sono gli sciiti capeggiati dal leader religioso Moqtada al Sadr che hanno fatto irruzione a fine aprile in aula e nella zona verde della capitale denunciando la mancanza di riforme. «La stabilità, la sicurezza e l’unità dell’Iraq non possono prescindere da un sistema inclusivo e paritario», ha scandito Kubis. Erbil e Bagdad, divise dalle lotte per il petrolio, devono tornarsi a parlare. Mentre la comunità internazionale deve trovare una soluzione «non militare per Mosul» .
Marta Serafini
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